RANDAGI

 

... a un diciottenne alcolizzato

versò da bere ancora un poco

e mentre quello lo guardava

lui disse: "Amico ci scommetto

stai per dirmi adesso è ora che io vada"

l'alcolizzato lo capì

non disse niente e lo seguì sulla sua cattiva strada...

"La cattiva strada", da Volume VIII

 

E gli venne da ricordare nonna Margherita, che era molto paziente e per i nipoti stravedeva. Ma non le riuscì facile sorridere, quando Fabrizio, cinque anni, l'afferrò e la chiuse nella dispensa, godendosi a lungo le sue grida, prima di liberarla.

Rammentò anche quando si era affacciato, con un fucile Flobert, al terrazzo di via Trieste e aveva visto un signore che leggeva il giornale, su un altro terrazzo, al piano di sotto del palazzo di fronte. Aveva preso accuratamente la mira e aveva sparato, il piumino si era fortunatamente infisso tra le pagine del giornale del malcapitato, che era, per ironia della sorte, il professor Cacciapuoti, presidente della sezione genovese della Federcaccia. Solo per un caso il proiettile non era penetrato nelle carni del cacciatore tramutato in preda, e che mamma Luisa fece la sua fatica a rabbonire, come spesso era costretta a fare dalle prodezze di quel figlio alquanto maudit.

Le elementari, Fabrizio le cominciò alle Marcelline, che subito si fece un dovere di ribattezzare "Porcelline". Vani essendo risultati i tentativi delle monache di indurlo a studiare, e incoercibile essendosi dimostrata la sua allergia per tonache e crocifissi, i suoi lo mandarono, in seconda, alla Cesare Battisti, una scuola pubblica dove, almeno, di crocifissi ce n'era uno solo per aula, appeso sopra la cattedra. Ma lui era allergico anche alle cattedre, e non è che studiasse di più.

A casa, a fargli svolgere i compiti, tentava di provvedere Mauro, suo fratello.

"Lui aveva le cose che io non ho, era razionale, rigoroso, responsabile. Gran lavoratore. Oggi che non c'è più, ricordo con doloroso rimpianto le sue prediche, i consigli che non mi sognavo nemmeno di chiedere e attraverso i quali lui combinava l'affetto con i doveri di fratello maggiore. Ma allora vedevo in lui una specie di emissario dei miei maestri, ai quali non perdonavo di impormi quello che dovevo leggere e quello che dovevo pensare. Così gli rispondevo a cazzotti e lui, per paura di farmi male, cercava di schivarli senza contrattaccare. Finché un giorno, dietro consiglio di mio padre, me le suonò di santa ragione.

Ai libri preferivo gli animali che avevo radunato, in una sorta di 'comune' vociante, sul terrazzo di casa: uccelli, porcellini d'India, conigli, colombi e anche un paio di oche, che mi ricordavano i tempi felici, quando eravamo in campagna.

Altri miei amici erano alcuni bambini che la gente per bene, allora, chiamava ragazzi di strada, scugnizzi svelti di parola e di mano, che conoscevano meglio le parolacce dei congiuntivi, detestavano la scuola quanto me ed erano quello che avrei voluto essere io, dei perfetti zingari. Eravamo una banda e ci sentivamo tutti una reincarnazione di Robin Hood, avendo capito fin da bambini che, al mondo, c'è chi ha troppo e chi ha niente. E così cercavamo, con i miei amici di strada, di fare giustizia a modo nostro.

C'era, alla Foce, una casa diroccata dalle bombe, e tra le sue macerie inventammo una sorta di rifugio, destinato non a noi ma ai gatti randagi che nella zona abbondavano. Per nutrirli, depredavamo le dispense di casa e, quando uno dei nostri ospiti spariva, non capivamo come si potesse fuggire da quel paese di Bengodi per scegliersi una vita di stenti. Così, per ripopolare il rifugio, rubavamo il gatto del droghiere o del salumaio.

L'estate, allora le vacanze erano molto più lunghe, passavo tre, quattro mesi in campagna e lì ritrovavo il mondo che amavo di più: libero, scandito da ritmi che non erano quelli delle convenzioni sociali, ma della natura. Dicono che il mio mestiere sia di fare l'artista, ma questo non è un lavoro: l'unico vero mestiere che ho fatto, nella mia vita, è quello dell'agricoltore. A parte il fatto che bazzicare la terra ti può aiutare, quando devi mettere delle idee sulle note, essere un artista non ti aiuta di certo, quando devi lavorare la terra.

A sedici anni andai al liceo Colombo, uno dei tre licei classici genovesi comunali. Gli altri due erano l'Andrea Doria e il Mazzini. Quest'ultimo era in periferia, e perciò fuori zona e disagevole da raggiungere. Al Doria ci andava mio fratello, che prendeva dieci in filosofia e in italiano, ma che avrebbe preso dieci anche in frutta e verdura, se le avessero insegnate. Sicché, per evitare confronti difficili, sono andato al Colombo, che era un po' meno vicino a casa, ma aveva il vantaggio di non mettermi in concorrenza con lui.

Anche là, continuai a studiare il meno possibile. Riuscivo a racimolare la sufficienza perché ai professori ero simpatico. E d'altronde andare a scuola mi serviva quando, d'estate, cercavo di rimorchiare le ragazze alla Lucciola, una balera alla periferia di Asti. Mi presentavo come uno studente di Genova, il che fa sempre un certo effetto, da quelle parti, e davo loro appuntamento per il mese dopo ai bagni comunali della mia città.

A quell'epoca impazzivo per la musica sudamericana, quella soprattutto dei Paraguayos che molti anni dopo mi avrebbe fornito lo spunto musicale e ritmico per 'Franziska'. Avevo provato a suonare il violino, ma una malattia diplomatica a una mandibola me l'aveva impedito. Il mio maestro, un certo Gatti, era un anarchico e faceva il secondo violino nell'orchestra del Carlo Felice, il teatro comunale. Non è mai diventato primo violino perché aveva quello che lui chiamava il 'timor panico', il terrore del pubblico. Quando poteva nascondersi dentro l'orchestra suonava come Paganini, ma se lo mettevi in prima fila si cagava addosso.

A me suonare creava grossi problemi, perché dovendo appoggiare la mandibola alla mentoniera provavo dolori insopportabili. Così cerai di aggirare l'ostacolo. Avevo scoperto che Gatti aveva una debolezza: era ghiotto di cavolini, sorta di paste ripiene di panna, e io ogni volta che veniva a casa mia per la lezione gliene facevo trovare un pacchetto, a patto che suonasse al mio posto così da far credere a mia madre, che era sempre in un'altra stanza, che a suonare fossi io.

Così lui si faceva la solita mangiata di cavolini, poi diceva, ad alta voce: 'Allora, comincia a suonare il "Trillo del diavolo"'. E invece lo suonava lui. Finché mia madre se ne accorse, e lo mandò a quel paese.

Passai allora alla chitarra, con un maestro colombiano che mi insegnò le musiche e i ritmi dell'America latina, allora pochissimo conosciuti in Europa, ma di così grande fascino."

La chitarra, gliel'avevano regalata i suoi e lui la portava sempre a tracolla, ma la suonava soprattutto in bagno. E intanto cominciava a tirar tardi, la sera, con gli amici del solito giro. Giocavano a flipper al Roby bar, dove bazzicava anche un tipo simpatico, occhi penetranti, che piaceva alle donne e si chiamava Luigi Tenco - ma suonava in un complessino facendosi chiamare Gigi Mai - bevendo e fumando come vecchi viveur. O bighellonavano nei vicoli, a importunare i travestiti e le battone, spesso senza avere i soldi per andare oltre. O procurandoseli con una colletta fra tutti i componenti del gruppo, quanto bastava perché uno su cinque, a turno, salisse in camera di qualche "bella di notte", con l'obbligo, al ritorno, di un racconto dettagliato dell'accaduto.

"Certo, da bambino ero proprio un gondone. Gundùn è una parola genovese che significa profilattico, ma viene anche usata nel senso di discolo o mascalzone, insomma un gondone. Se fossi ragazzo oggi, vivrei tre quarti del mio tempo chiuso in qualche riformatorio. Passavo le mie giornate in strada, eravamo una banda, i Lupi di via Piave, sempre intenti a fare a sassate con la banda Ganda, formata da ragazzi di un altro quartiere.

Eravamo tutti un po' "légere"*, tranne Giorgio Scorpiade, il figlio dei miei portinai, che aveva avuto un'educazione molto severa - era figlio di comunisti rigidi - ed era contrario alle nostre malefatte. Con due amici, bombardavamo col carbone il terrazzo della famiglia Monti, che abitava nel palazzo prospiciente il nostro.

Mi ricordo che un giorno presi mia madre e le diedi uno spintone mandandola contro una finestra, tanto che si tagliò dappertutto, e mio padre decise di darmi una lezione. Mi diede tante cinghiate da farmi lievitare il culo come un pandolce, poi mi chiese:

'Hai niente da dire alla mamma?' Io risposi di no. Lui, per rappresaglia, prese i miei album di figurine - ne avevo cinque o sei - e me li bruciò tutti in mezzo alla stanza. Io rimasi impassibile. Lui afferrò una scarpa e mi picchiò in testa col tacco. Poi ripeté:

'Hai niente da dire alla mamma?' 'No', risposi. Se ne andò, avevo vinto io.

Sul terrazzo, insieme a numerosi altri animali, tenevo alcuni piccioni, per i quali avevo costruito delle casette, segando a metà delle cassette di legno. Dopo qualche tempo, sul fondo di queste ultime c’era uno strato di merda alto qualche centimetro: io ne staccavo dei grossi pezzi per lanciarli dentro le pentole, piene di latte, delle massaie che, giù per la strada, tornavano dalla spesa.

Diventato più grande, non persi il mio gusto per gli scherzi feroci. Anzi, trovai un complice straordinario in Paolo Villaggio, che avevo conosciuto quando io avevo sette anni e lui quindici, un'estate vicino a Cortina. Più tardi, lui lavorava alla Cosider e guadagnava novantacinquemila lire al mese, io ne guadagnavo novantamila in una scuola di mio padre, dove ero una specie di vicepreside preso pochissimo sul serio dagli studenti. Insieme, in una sera, ci spendemmo tutto lo stipendio di un mese ai baracconi.

Con Paolo facevamo il gioco dei treni: verso le cinque del mattino andavamo alla stazione Principe e facevamo finta di aver perso il treno, per rompere i coglioni a chi doveva partire davvero, e che credeva d'averlo perso a sua volta. Poi correvamo al vicino Hotel Columbia, facevamo colazione e andavamo a bussare alle porte delle camere, urlando: 'Tutti giù per il sorteggio'. Dopo un po', ovviamente, fummo cacciati e minacciati di denuncia.

A volte andavamo ad Albisola, in un locale che si chiamava Pozzo della Garitta, e improvvisavamo finte canzoni partigiane, o finte canzoni popolari sarde. Come quella che diceva: 'E la ciamavan la Mariùn / e l'era un grande puttanun / però l'amor faceva sol / col partigiano'. O 'Lu furnari du Gennargentu', che era la storia di un pastore che scende dal monte e sa che la moglie lo cornifica col fornaio. Sicché ogni albero, ogni ramo, ogni sentiero gli sembra il membro del rivale, e alla fine dice alla moglie di tenerselo, il cazzo del suo fornaio.

Alle luci dell'alba giravamo per i forni, e Villaggio ordinava un chilo e mezzo di focaccia con cipolla bianca centrale. Quelli rispondevano che l'avrebbero preparata, che tornassimo dopo mezz'ora. Non tornavamo quasi mai.

Un'altra vittima del nostro giro era un pugliese, un certo Cuccia. D'estate, passavamo nottate intere a pesca di totani o di bughe. Per prendere queste ultime, andavamo in barca a Punta Chiappa e usavamo una specie di esca, un recipiente pieno di un intruglio fatto di acciuga andata a male, pane secco e pecorino marcio: una cosa disgustosa, che nel gergo dei pescatori si chiama appanno.

Il Cuccia era appassionato di pesca, ma soffriva di mal di mare al punto che, ogni volta che vedeva un'onda, vomitava e le bughe arrivavano a frotte. Così lo portavamo con noi perché, in quel modo, sostituisse l'appanno.

Lui corteggiava un'infermiera, che però non si concedeva, e stava per delle ore seduto con lei su una panchina, senza riuscire a sfiorarle una tetta. Un altro nostro amico, il poeta Mannerini, gli diede a intendere che, per conquistare una donna, bisogna accarezzarla sulle zone erogene, e che la zona più erogena sono le narici. Sicché un giorno vedemmo arrivare l'infermiera incazzatissima, urlando: 'Quel cretino mi ha messo le dita nel naso'.

Mannerini era un altro mio grande amico. Era quasi cieco perché, quando navigava su una nave dei Costa, una caldaia gli era esplosa in faccia. E’ morto suicida, molti anni dopo, senza avere mai visto alcun indennizzo. Ha avuto brutte storie con la giustizia, perché era un autentico libertario e così, quando qualche ricercato bussava alla sua porta, lui lo nascondeva in casa sua. E magari gli curava le ferite e gli estraeva i proiettili che aveva in corpo. Bastava che uno gli dicesse: 'Vogliono mettermi in galera', e lui lo ospitava.

Oltre a tutto, erano i tempi di Tambroni e di Scelba, e per le persone di sinistra la vita non era facile. Io stesso, che ero diventato anarchico, ho avuto qualche problema. Un giorno, in casa mia, ci fu un furto di gioielli, e il commissario Angelo Costa, capo della squadra mobile, venne a fare un sopralluogo e prese le impronte digitali proprio a me, che avevo sedici anni. Anni dopo, quando le mie canzoni cominciavano a circolare, fui convocato dai carabinieri di via Moresco. Un maresciallo mi chiese: 'Ce la fumiamo, una sigaretta di marijuana?' Io gli risposi che mi bastavano già le Nazionali, e lui ribatté che sapeva benissimo che mi drogavo. Finalmente riuscii a fargli dire il motivo di quel sospetto, oltre tutto ingiusto: avevano arrestato, su un treno, una tizia con la borsetta piena di 'erba', e le avevano trovato dei fogli sui quali aveva scritto i testi di alcune mie canzoni, e il mio nome. Evidentemente era una mia ammiratrice, ma io non la conoscevo nemmeno."

* In genovese: persona poco seria.