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Il poeta della mussa

Che senso ha parlare oggi, a un anno dalla sua scomparsa, di Fabrizio De Andrè? Che senso ha parlare di questo "aristocratico" signore genovese dai modi garbati? Che senso ha parlare della sua voce magica, evocativa, incazzata; della sua poesia; del suo volto segnato dagli eccessi di gioventù e di cui ancora oggi in molti non ne conoscono le sembianze? Che senso ha?

Innumerevoli parole sono state già dette. Centinaia, migliaia di articoli sono già stati scritti. Qualche buon libro è già stato stampato. Le antologie scolastiche lo affiancano agli autori classici. La memoria popolare lo tramanda "di bocca in bocca" come accadeva per gli antichi poemi e per le canzoni tradizionali che a Lui piacevano tanto.

Che senso ha parlare oggi di Fabrizio De Andrè sperando di dire qualcosa di nuovo?

Proviamo per un attimo a chiudere gli occhi e ad ascoltarlo, ad ascoltarlo ancora, in silenzio…

Le idee scintillano via, il grave suono del fagotto inonda ogni cosa: un altro grande romanzo è concluso. Va via la consolante lucidità di Fabrizio, l’uomo di Genova. L’accordo che Fabrizio lascia non si può scindere dalla sua carne. L’Uomo-Fabrizio è il Fabrizio-Autore; noi siamo i suoi impiccati, i suoi soldati, le sue puttane; le virtù delle sue canzoni sono le virtù della sua persona.

Noi si andava tutti a lezione dal Maestro. Era nella penombra lucida che splendevano gli occhi di Fabrizio. Vigile, costante e paziente nell’impartire generosamente gli accordi, gli scudi elevati dalla nota che appetivano di proteggerci dal marcio nauseante, da quel disgusto che tuttora accompagna il nostro cammino. Appena vicino a Genova, sopra ogni cisto da qui al mare, ovunque, dunque, Fabrizio diffondeva un po’ di se. Noi eravamo uniti, assorti e rapiti nell’apprendere, nel vedere con nuove pupille.

Doveva essere facile a Lui. L’umanità che emanava sapeva essere autentica, anche nella radiografia accurata, minuziosa che egli emetteva dei vizi e delle virtù. Dotato di divina lucidità ed umanità, le cose che ha fatto, scritto, detto (e di cui dobbiamo preoccuparci di non dimenticare) hanno rivoluzionato e riscritto la storia della musica e soprattutto il nostro mondo. La nostra miseria, la povertà dei nostri vizi, dei limiti umani hanno vissuto con Fabrizio l’epoca del grande Smascheramento. Era come se la poesia di quell’uomo avesse la dote di fornirci il giusto punto di misura, il nuovo metro (per noi) di valutazione delle cose. Nella politica, nel potere così come nelle faccende dell’amore, il mistero veniva svelato da Fabrizio. Lo smascheramento di Fabrizio è incondizionato, spietato come il nemico da combattere. La "pietas" si spande invece per le anime salve. Dall’alto dell’unico potere inattaccabile dal potere (l’anarchia) si squarciano le ombre, cadono i luoghi comuni. Crediamo che questo fosse per Lui (al di là dell’aspetto più serio) il gioco principale della sua esistenza.

Nuove visioni, nuovi termini (il suo studio sulle lingue è esemplare), il ricorso a ciò che era caduto nel divieto, il prezzo stesso del divieto(Lui stesso ha infatti vissuto le grandi censure, i tagli dati alla lingua di chi non si è assoggettato al tamburo degli altri, ma ha voluto vivere la propria metrica), vengono accomunati nella letteratura di Fabrizio. La vita si guarda per quella che è. Lo sguardo irato di Fabrizio (il coro di vibrante protesta) scinde addirittura i parametri della buona parola. La volgarità non diviene più tale. Ciò è facile da comprendere: la volgarità è tale solo quando è usata a titolo gratuito. I termini diretti, asettici, insostituibili di Fabrizio sono, invece, gli strumenti stessi della difesa. La donna di strada, i viados sono presenze vere, come autentici sono i loro genitali, la mussa. La libertà dagli schemi corrotti e corruttori è bandiera principe di questo grande poeta del novecento.

E nella sua umanità trova spiegazione anche il suo rapporto con la donna. In assoluto è riuscito più di ogni altro a raffigurare il grande mistero femminile. Di indimenticabile sintesi, di figuratività complessa e naturale, la donna cantata da Fabrizio apporta l’amore nel mondo dell’uomo, capace, da grande stupido qual è, di volerla veder "salir le scale", di desiderarla, rimpiangerla, immaginarla o di usarla per un attimo di felicità.

E’ normale, dunque, il sentimento di chi oggi si sente non più protetto, di chi ha perso l’amico, la tranquillità della guardia, del custode sincero, di chi non ti sferza per i tuoi errori "banali" ma è pronto ad aggredirti se scivoli nella cattiva strada.

E’ in questo quadro che risuonano di drammatica attualità i passi del suo infinito testamento, di chi con sdegno e grande divinazione constatò la desolante miseria intellettuale che ancora oggi ci avvolge: "Voi avevate voci potenti, lingue allenate a battere il tamburo, voi avevate voci potenti".

Ha ancora senso continuare a parlare di Fabrizio De Andrè!

                         Luigi Galati & Arnaldo Tavernese

(La foto è di Giuseppe Pino : << La sua didascalia a questa foto fu: "Col culo esposto al radiatore s'era assopito il cantautore". Un'immagine cui Fabrizio era molto affezionato, forse perchè lo presenta senza maschere, o forse perchè, ronzandogli attorno, non gli ho rotto troppo le scatole>>.)