La morte, il potere, l'anarchia

Ma la morte non sempre accompagna solo il caso o la vanità umana, essa è compagna ideale di ogni politico come di ogni generale quando si tratti di decidere la guerra e quindi di dispensare "la polvere, il sangue, le mosche, l'odore / per strada e fra i campi la gente che muore".

E, dunque, anche il potere che porta morte. Morti stupide, falsamente colorate di eroismi, e morti altrettanto stupide, venate dell'arroganza di chi, nella difesa dei privilegi di classe, condanna al martirio gli innocenti che ostacolano il suo cammino.

Da colui di cui la patria si gloria come "d'un altro eroe alla memoria" a Piero che dorme "sepolto in un campo di grano" per non aver avuto la forza di sparare a un uomo come lui con il suo "stesso identico umore ma la divisa di un altro colore"; al popolo "macellato / su una croce di legno" per mano di un "triste re cattolico" al quale Cristoforo Colombo aveva "inventato un regno"; agli indiani delle praterie trucidati da "un generale di vent'anni / occhi turchini e giacca uguale", al piccolo bambino palestinese morto in Libano "e ora grumo di sangue orecchie / e denti di latte", a tutta questa umanità vittima delle logiche di rapina dei potenti e dei loro poteri, Fabrizio De André regala la sua voce perché i reietti possano sopravvivere, almeno nella memoria di chi, contro quegli stessi poteri, combatte la sua battaglia quotidiana.

Perché sono il potere e le autorità a esso connesse, i veri nemici di De André.

Con Michail Bakunin, De André ha imparato che

… il potere corrompe sia coloro che ne sono investiti che coloro i quali devono soggiacervi. Sotto la sua nefasta influenza gli uni si trasformano in despoti ambiziosi e avidi, in sfruttatori della societa' in favore della propria persona o casta, gli altri in schiavi…

Un potere verso il quale De André modula indifferentemente le corde della derisione come quelle dell'indignazione.

Lo deride in Carlo Martello dal "volto da caprone / ma era Sua Maestà" e nei "quattro gendarmi / con i pennacchi e con le armi".

Lo deride nel folle Girotondo della guerra. Lo sbeffeggia nei giudici: nella sodomizzazione di uno di loro, trascinato in mezzo a un prato da un gorilla ("Quello che avvenne fra l'erba alta / non posso dirlo per intero / ma lo spettacolo fu avvincente / e la suspance ci fu davvero"), ma anche nel giudice nano che, nella sua veste di "arbitro in terra del bene e del male", gode nel vendicarsi dei sorrisi e dei commenti sagaci dovuti alla sua statura, distribuendo a piacimento condanne a morte ("E allora la mia statura / non dispensò più buonumore / a chi alla sbarra in piedi / mi diceva "Vostro Onore"")

Lo ridicolizza in Al ballo mascherato "della celebrità" così come negli infimi vezzi esibiti dalla piccola borghesia vestita a festa per la processione della domenica.

Dopo il sarcasmo, utile "a schermare inauditi dolori", l'indignazione.

Come succede osservando i disegni di George Grosz, l'indignazione, nelle canzoni di Fabrizio De André, è un sentimento che nasce spontaneo ed è onnipresente ogni qualvolta il potere e i suoi lacchè mostrano la loro faccia di arroganza, di volgarità, di violenza.

Non sono necessarie "dichiarazioni", sono inutili gli slogan, è irrisoria la veemenza delle parole: la denuncia di De André, infatti, non utilizza mai queste facili formule per esprimere indignazione.

Come Grosz, appunto, De André utilizza le parole quasi fossero tratti di un disegno essenziale, capaci di generare nella mente di chi le ascolta, le immagini stesse dell'arroganza, della volgarità, della violenza insite nel potere.

Cosa oppone a tutto ciò l'artista genovese? Non la rivoluzione, o almeno, non la rivoluzione di quelli che Bakunin chiama i rivoluzionari dottrinari "nemici dei poteri attuali solo perché vogliono impradonirsene" ma, forse, nemmeno la rivoluzione di Spartaco, la rivoluzione dei pezzenti di anarchica memoria.

Nel vivo della prima metà degli anni Settanta, quando movimento e avanguardie rivoluzionarie avevano "alzato il livello" del conflitto sociale il primo, della guerra di classe le seconde - De André sembra sfiorare la possibilità di superare la sua condizione di intellettuale in crisi, per riconoscersi parte attiva con e tra quegli stessi "dannati" cantati negli anni precedenti, i quali, proprio in quell'epoca, si erano politicizzati e lottavano nelle carceri contro il carcere stesso ma anche contro il sistema che produceva quel carcere.

C'è una strofa nell'ultima canzone compresa nell'album Storia di un impiegato ("Di respirare la stessa aria / dei secondini non ci va e abbiam deciso di imprigionarli / durante l'ora di libertà / venite adesso alla prigione / state a sentire stilla porta / la nostra ultima Canzone / che vi ripete un'altra volta / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti" che sembra preludere a una scelta di campo più netta dell'autore nello scontro sociale in atto.

Quel passaggio dall'io al noi che caratterizza l'inizio, il percorso e la conclusione di Storia di un impiegato, riscatta la storia del piccolo borghese che, nella frustrazione di non essere accettato dall'alta borghesia e, nel contempo, di essere guardato con sospetto dal proletariato, si era ribellato con il gesto individuale di una bomba che avrebbe voluto lanciare contro i rappresentanti della politica ma che, invece, aveva colpito un'edicola di giornali aprendogli le porte della galera. Dall'io al noi è, appunto, ciò che l'impiegato impara e sceglie "tra gli altri vestiti uguali" dietro alle sbarre.

De André, in realtà, non sceglierà la stessa cosa.

Anzi, se quel suo lavoro ufficialmente lo bollerà come bordellone, ufficiosamente farà capire di non riconoscersi appieno in quel finale (firmato, come tutte le altre canzoni dell'album, con Giuseppe Bentivoglio).

Lui, per formazione, è più propenso a riconoscersi nell'Unico di Max Stirner: invece che nel noi crede nell'io o, eventualmente, in tanti Io che, momentaneamente, si mettono insieme per il raggiungimento di un obiettivo.

Una somma di egoismi (sempre nel senso dato all'egoismo da Stirner), pronta a rifarsi unicità aristocratica nello sguardo indignato (ma incapace di rivoluzione) del singolo.

E infatti, quasi a voler ristabilire con determinazione l'individualismo della sua intellettualità critiica, dopo Storta di un impiegato e una pausa di riflessione di due anni (durante la quale pubblica una raccolta in cui, oltre a vecchi successi, trovano posto accurate quanto personali traduzioni da Bob Dylan, Georges Brassens, .Leonard Coben), De André firmerà insieme a Francesco De Gregori quasi tutte le canzoni dell'album Volume VIII.

Il disco viene ricordato come "una tappa nell'evoluzione linguistica della canzone italiana degli anni Settanta. I due cantautori lavorano nella direzione di una poesia cantata, il cui ritmo, scandito dalle parole, dai giochi delle frasi, dai percorsi inconsueti del linguaggio, si realizza in un tipo di struttura musicale nuova e aperta. Quella di Volume VIII però è un'evoluzione che porta De André a misurarsi con una poetica sicuramente più ermetica rispetto al suo stile, con giochi semantici "al limite del non sense" . Da La cattiva strada (dove una sorta di pifferaio magico attraversa la realtà portandosi appresso un innocente al quale "sputò negli occhi", una "regina" alla quale "rubò l'incasso", un pilota di aereo al quale "truccò le stelle", un diciottenne alcolizzato cui "versò da bere ancora un poco", i giurati di "un processo per amore cui aveva baciato le bocche, perché comunque "c'è amore un po' per tutti … sulla cattiva strada"), a Oceano ("prova a lasciare le campane al loro cerchio di rondini / [...] e non venirmi a dire "preferisco un poeta / preferisco un poeta ad un poeta sconfitto""; da Nancy (che "portava calze verdi / e dormiva con tutti / ma "cosa fai domani" / non lo chiese mai a nessuno") all'Amico fragile, ("evaporato in una nuvola rossa / in una delle molte feritoie della notte / con un bisogno d'attenzione e d'amore"), De André, nel lasciare aperte le porte della sua poetica a De Gregori la cui "elasticità espressiva [...] si è tesa quasi fino al limite e la rarefazione rasenta l'illeggibile [e] la raffinatezza dei suoi riferimenti a fatti politici e sociali tende a essere sopraffatta dal peso delle parole, dalle loro connessioni e sconnessioni", si trova a percorrere sentieri linguistici e metafore per lui inusuali.

Il gioco semantico cui sottopone l'ispirazione poetica sembra quasi andare in parallelo con la mutazione socio-politica che investe la cosiddetta "generazione del Sessantotto" intorno alla metà degli anni Settanta quando cioè, alla frazione più coerentemente politica che si avvia sui percorsi incerti, drammatici e contraddittori della lotta armata, si affianca una vasta area di middle class culturale che "stava perdendo rapidamente il super-io sociale e politico che l'aveva spinta alla rivolta e all'impegno e [che] non riusciva ormai a vedere più niente al di fuori di sé: né popolo, né operai, né esclusi, né oppressi, né altre culture"

Volume VIII, al di là del valore artistico (la forza poetica dell'opera è comunque fuori discussione e brani come Giugno '73, Canzone per l'estate e Amico fragile lo stanno a testimoniare), è, probabilmente, un'opera di transizione nel più generale processo evolutivo di De André, quasi una fase intimistica in risposta al generale "sbandamento" che si inizia a intravedere nei settori più avanzati della società di fronte all'irrigidimento dello scontro sociale.

Infatti, come era prevedibile, il suo ruolo critico, se da un lato gli impedisce l'adesione diretta a forme di pratica artistico-politica in linea con le aspettative dell'ala più radicale del movimento, dall'altro, ancor meno, gli permette di ritrovarsi compagno di strada di quella "nuova piccola borghesia" nata dal Sessantotto "eclettica e nello stesso tempo monoculturale, nemica dei cosiddetti ideali e magnetizzata dalla società dello spettacolo, polimorfa, sradicata, fluttuante", brulicante "di uomini d'avanguardia [pronti] a mutare rapidamente ideologie, abiti, comportamenti e abitudini".

E infatti, già nell'album successivo, Rimini (1978), Fabrizio De André ritrova non solo il "suo" mondo fatto dei linguaggi della marginalità urbana e suburbana ma anche (in un passaggio che si rivelerà fondamenta nelle sue produzioni successive), le culture di etnie diverse e arcaiche come quelle degli indiani d'America e dei sardi, riconosciute vittime di quello stesso potere da lui sempre osteggiato.