La scuola genovese.

Se il '58 è l'anno della "svolta" e se Modugno ne è l'artefice - con un nuovo modo di stare dietro al microfono, cioè da cantante e da autore - i due anni successivi sono quelli in cui nasce la "scuola dei cantautori", meglio conosciuta come "scuola genovese". Certo il termine non va preso alla lettera: la scuola di cui si parla non è un'istituzione permanente presso cui seguire dei corsi e fare degli esami, ma è un modo per indicare un gruppo di artisti, con stili anche diversi tra loro, gravitanti attorno all’area genovese ma nati anche altrove, e con un background culturale diversificato. Si richiamavano infatti alla musica statunitense in generale e a quella rock e jazz in particolare, ma anche e soprattutto agli "chansonniers" francesi. Un gruppo di artisti che abiurava la musica "gastronomica", che aveva intravisto le storture del nuovo "sistema Italia" e che si nutriva di esistenzialismo francese e letteratura maudit, poeti crepuscolari, ermetici e surrealisti francesi. Una manciata di artisti che rispondeva ai nomi di Gino Paoli, Umberto Bindi, Bruno Lauzi, Luigi Tenco, Sergio Endrigo, Piero Ciampi, Fabrizio De André, Paolo Conte (il quale presto, insieme a De André, prenderà una strada diversa). Ma se fino a questo momento tutti i nuovi cantanti italiani avevano attinto, sia nei contenuti che nella forma, alla musica proveniente dall'America, ora, per i cantautori della neonata scuola, il Paese guida diventava la Francia e i suoi artisti più colti: Jacques Brel, George Brassens, Charles Aznavour ecc.. Sono artisti ascoltati e cantati tanto dal popolo quanto dagli intellettuali.

Il loro credo, anche se non sempre espresso a chiare lettere, è épater le bourgeois, stupire il borghese. Alcuni di loro sono solo eccentrici o disobbedienti, ma altri sono ferocemente anticlericali, blasfemi e amorali, parteggiano per i perdenti - puttane, clochards, ladri - e si divertono tanto a fustigare bigotti e fascisti, e a scuotere il loro conformismo.

La loro canzone cercava lo scandalo, ma superava la barriera tra cultura alta e masse. Cosa che non succedeva ancora da noi. Il loro mondo era Parigi, la "rive gauche" della Senna, la "repubblica" esistenzialista e marxista delle cave di Saint-Germain de Prés. Il loro modo di scrivere divenne per gli artisti della "scuola genovese" il contraltare colto alla canzone "gastronomica" sanremese e a quella roccheggiante. Suscitavano molta curiosità, in particolare, le canzoni misogine e anticlericali, libertarie e ferocemente antiborghesi di Brassens e Brel.

Nei loro sottili veleni, nel loro irridere alla volgarità e all'ipocrisia - "Les bourgeois c'est comme les cochons" cantava Jacques Brel - nella loro capacità di smantellare una per una le certezze del clero, dell'alta borghesia e dei politicanti di destra, molti italiani avvertirono la presenza di un senso di libertà e di un coraggio civile che non avevano l'eguale nella nostra cultura. E si buttarono a seguirne le tracce. Ci provarono Svampa con i Gufi, De André, Gaber, Paoli ed Endrigo.

Influenzarono anche l'ambiente teatrale italiano (Laura Betti, Paolo Poli, Maria Monti) e artisti più giovani come Dalla, De Gregori, Conte, Cocciante e cantori come David Riondino e Gianfranco Manfredi.

Per tornare alla "scuola genovese", dobbiamo dire che il tema principale delle loro canzoni era, come nella canzone del dopoguerra, l'amore; ma un amore vissuto nella quotidianità, ridotto a cosa umana, spogliato dalla retorica, introdotto da un percorso "esistenziale", incerto, tormentato, a volte deludente, cantato con passione e sofferenza. Al contrario della canzone d'amore sanremese, in questa l'amore, più che celebrato, è descritto tramite l'esperienza dell'autore e non con frasi fatte; è raccontato con parole vere e adeguate alla vita di tutti i giorni; è vissuto dagli artisti in prima persona, attraverso la riscoperta della quotidianità: nei bar, nelle strade di quartieri malfamati, nelle stanze di un bordello o in un giardino di Milano. Ogni artista della neonata "scuola" esprimerà, attraverso l'amore privato, il proprio malessere sociale, il disagio in un mondo che sta cambiando portandosi dietro gravi contraddizioni e ingiustizie, porterà una grande carica di anticonformismo e di spregiudicatezza, esprimerà il desiderio di valori e modelli di vita diversi da quelli esistenti, un mondo più libero, diverso da quello che andava delineandosi :"un mondo diverso, diverso da qui" canta Gino Paoli in Sapore di sale: un mondo diverso che poteva essere racchiuso anche in una sola stanza:

Quando sei qui con me

questa stanza non ha più pareti

ma alberi,

alberi infiniti.

Quando sei qui vicino a me

questo soffitto viola

no, non esiste più.

Io vedo il cielo sopra noi

che restiamo qui

abbandonati

come se non ci fosse più

niente, più niente al mondo…

E ogni artista lo farà col proprio stile, col proprio bagaglio culturale, con l'esperienza personale: ma tutti lo faranno con un senso di malessere fortemente contrapposto al clima degli "spensierati anni sessanta"; un malessere allora diffuso tra i giovani e forte in questi artisti: così forte da esprimersi nella vita privata prima che nell'opera : Paoli tenta il suicidio sparandosi al cuore nel 1963, Tenco si uccide nel 1967 al Festival, esprimendo nel biglietto che lascia la contraddizione fra la propria canzone e quella sanremese, Ciampi si lascia uccidere lentamente col vino e la cirrosi.

Analizzando sommariamente questi artisti, almeno i più rappresentativi, possiamo delineare i tratti fondamentali della loro opera.

Gino Paoli comincia come pittore. Nella sua opera di cantautore prevale la prima persona singolare e l'interlocutore principale è il "tu" della compagna (Senza fine), un luogo idealizzato (Il cielo in una stanza), un animale (La gatta). I suoi riferimenti culturali sembrano essere soprattutto Montale, Saba e Pavese.

Luigi Tenco, dal canto suo, era un ottimo studente universitario, grande lettore e proprietario di una ricca biblioteca privata nella quale comparivano testi di Kafka, Huxley, Moravia, Reich, Byron, Du Maurier, Joyce, Lorca, Mann, Remarque e Piasecki.

…La sua filosofia è quella degli anni in cui visse, anni di disgusti e ribellione più che rivoluzione, di disobbedienza e di provocazione più che di lotta civile. Nelle sue canzoni, Tenco fruga nei rapporti di coppia, svelando segreti e sotterfugi e rovesciandone spietatamente lo stereotipo borghese. Lo fa con l'arroganza di chi ha ascoltato le canzoni di Brassens, Brel e di Aznavour e non è del tutto digiuno di nausee sartriane, disgusti céliniani e disprezzo alla Camus….

 

Umberto Bindi affidava ad altri il compito di scrivere i testi, cosa che più dei contenuti e dello stile lo differenziava tecnicamente dagli altri. La sua canzone era malinconica e romantica. Un esempio è Arrivederci, il cui testo è di Giorgio Calabrese:

Arrivederci.

Dammi la mano e sorridi,

senza piangere.

Arrivederci.

Per una volta ancora

è bello fingere.

Abbiamo sfidato l'amore quasi per gioco,

ed ora fingiam di lasciarci soltanto per poco.

Arrivederci…

Bindi è rimasto un po' in ombra rispetto agli altri soprattutto per la sua omosessualità, che dati i tempi pesò notevolmente anche sulla sua figura di musicista e cantante. Il suo essere "diverso" e il suo dramma lo esprimeva con la musica, dato che non considerava i tempi maturi per poter uscire allo scoperto e cantare la sua "diversità", benché Paoli gli consigli di scrivere una canzone dedicata a un uomo.

Piero Ciampi era un poeta, del tipo "genio e sregolatezza", come lo definisce Baldazzi, un personaggio davvero "tragico". Il suo universo poetico era

…quello dei vinti, dei deboli, degli emarginati ("Io, in questa vita,/ sono uno straniero"), il tema centrale di questo artista "maudit" - rimasto completamente sconosciuto al grande pubblico - era l'amore, la faccia oscura dell'amore: "Noi per amore ci sfidiamo a duello/ sarà sempre così./ Ma, amore, non esiste un nemico più bello di te".

Quello dunque che si confonde con la morte e l'impossibilità di vivere, quello che ha il volto e gli occhi di Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi quando, dopo aver inseguito disperatamente Maria Schneider ed essere stato ferito a morte da lei, guarda con il lampo di un sorriso i tetti di Parigi.

Era un autentico ribelle, di quelli che non scendevano mai a compromessi né nella vita di tutti i giorni né nell'arte. Questo suo essere così diverso rispetto ai tempi in cui visse, e l'incapacità di mediare e di piegarsi, gli procurò qualche dispiacere (la moglie lo lasciò portandosi dietro i figli, con gli amici spesso litigava fino ad arrivare, ubriaco, a furibonde scazzottate, la società lo emarginò definendolo "artista impossibile"). Provava grande gioia nell’irridere l'Italia del benessere economico e piccolo-borghese, a volte con ironia e a volte con strafottenza: "Andare camminare lavorare, la Penisola in automobile, […] alé, la Penisola al volante, questa bella penisola è diventata un volante. Andare camminare lavorare" (da Andare camminare lavorare) e

…E che sono quei cenci che hai addosso? ma che è? ma fammi capire… ma senti… ma io… ma come! tu sei… sei la mia… e stiamo in questa stamberga coi cenci addosso! ma io adesso esco, sai che cosa faccio? ma io ti porto… una pelliccia… di leone… con l'innesto di una tigre. Telo faccio vedere chi sono io.

 

dove alla derisione dei beni di consumo aggiunge rabbia e spavalderia.

Come abbiamo visto, i genovesi erano coloro che cantavano l'altra faccia degli anni del dopoguerra e del boom, quelli che si ribellavano, che soffrivano. Con loro, fino alla fine degli anni Settanta, va delineandosi nella musica italiana un forte movimento generazionale che contrappone i padri, con i valori di cui sono portatori, ai figli, che li "uccidono" in continuazione. Questi cantautori spingono fortemente sull'acceleratore dell'insoddisfazione giovanile proletaria e sottoproletaria facendone una pratica di eversione culturale, sociale e sessuale contrapposta a quella delle generazioni precedenti. Siamo alla vigilia del '68. Vengono sottoposti a duro giudizio i valori fondamentali del passato: famiglia, scuola, istituzioni, religione ecc, e i rappresentanti di questi valori, cioè i "padri", si trincerano immediatamente nel loro mondo, osteggiando i figli e indicando subito i cantautori (questo è l'ambito che ci interessa) come "cattivi maestri". Tra questi, naturalmente, non poteva mancare Fabrizio De André, per il quale va fatto uno studio particolare, in quanto, formatosi tra i cantautori genovesi, ha un impianto formale più mosso: al "tu" o a qualche luogo e oggetto idealizzato, soli interlocutori dei primi "genovesi", aggiunge il "noi", la forma poetica della ballata; al senso di ribellione presente negli altri cantautori, ma legato a un determinato periodo, aggiunge una poesia anarchica che è metafora dei soprusi ciclici della storia, che si ripetono da millenni e sempre a sfavore dei deboli. Ama, come Guccini e De Gregori, le metafore, le allusioni e le parabole. Introduce

nella canzone il mestiere della poesia e il concetto della vita come letteratura, come ripetizione, come "tango triste". Se Tenco e Paoli scrivono velocemente, a caldo, su fogli da bar, facendosi vanto di questa velocità di elaborazione poetica, De André articola le sue canzoni come poemi, dove si avverte il magistero della scrittura.

 

Come lui, Guccini ama immaginare il cantautore più che come poeta come artigiano della parola, che passa molto tempo a lavorare e modellare i versi come un fabbro che batte il ferro.

Fabrizio De André è quello che meglio ha impersonato il ruolo di "cattivo maestro", quello che ha saputo essere interlocutore nello scontro politico, sociale e culturale. È quello che ha incarnato, in un periodo di forti contrasti, crisi e attacchi alla borghesia, la figura dell'intellettuale critico (ossia, in crisi), scegliendosi una collocazione da "anarchico", cioè eccentrico sia alla borghesia, dalla quale proveniva per origine, sia al proletariato, al quale non apparteneva. Tutto ciò De André lo ha fatto con un "approccio sofferto alla realtà, lacerato da dubbi e angosce che si sublimano talora in versi, canzoni, idee e battute" di grande spessore culturale, ricche di echi letterari. E' possibile sentire nelle sue canzoni, come in quelle di Guccini o De Gregori, echi di letture dei più diversi poeti, romanzieri, filosofi o saggisti di tutti i tempi e di tutte le "etichette". De André, legge tutto ciò che lo appassiona, senza fare di queste letture uno studio sistematico e "scientifico", ma uno studio libero, eccentrico, fantasioso e "artistico", nel senso che rielabora tutto ciò che legge, lo modifica, lo piega fino a farlo entrare nella propria visione del mondo: una visione che non è assoluta, ma critica, e critica soprattutto verso dogmi e pregiudizi, poteri forti, verso "la maggioranza" e tutto ciò che è sua espressione, quindi anche verso le "regole", ingiuste pure queste in quanto espressione diretta di chi le ha stabilite non di chi vi deve obbedire. Nel corso della presente dissertazione cercherò di rintracciare nelle canzoni di De André gli echi di opere come i Vangeli apocrifi, L'antologia di Spoon River, o la presenza di autori come Villon, Lee Masters, Angiolieri, Mutis, ma anche di minori o sconosciuti alla cultura ufficiale. Lo stesso farò, per quel che riguarda gli autori ai quali hanno attinto a loro volta, con Guccini e De Gregori.