La Chiave

Era il 25 aprile di un anno verso la fine degli ottanta.Tornavo in Sardegna da Fabrizio alla fattoria dell’Agnata per la scrittura di "Don Raffaè". La sera prima avevamo parlato fino al mattino rotolando da Ermete Trimegisto e la letteratura esoterica alla botanica.Fabrizio s’era alzato per farmi vedere fuori l’orgoglio di un piccola faggio canadese da poco arrivato e piantato in evidenza sul prato illuminato. E poi a seguire sui dogi di Genova e di Venezia. Il pollaio e la carenza di calcio nel terreno. Quanto di Machado c’era in Lorca e di Yeats dentro Dylan Thomas e dei profeti biblici in Cohen, e di tutto questo in Bob Dylan. Avevamo discusso del campionato del Genoa, del Verona e dell’Inter. Del nuovo toro limusino che aveva acquistato. Dei Fenici in Sardegna e del progetto del laghetto da creare bloccando il ruscello più a valle. Era così venuta mattina e con Fabrizio salimmo in perlustrazione su verso le stalle. Trovammo una mucca in crisi di parto, probabilmente il vitellino era messo in posizione contraria e non riusciva ad uscire creando sofferenza a sé ed alla madre. Tornammo di corsa giù a telefonare, ma non si trovava un veterinario in tutta la zona. Così Fabrizio andò sulla sua libreria a prendere uno dei libri "utili" e cominciò a  consultare le pagine in cui si descrivevano ed illustravano schematicamente tutte le possibilità di posizione dei vitelli nei parti difficili e delle tecniche per estrarli. Con mio grande terrore gli chiesi che intenzioni avesse e lui molto tranquillamente mi rispose - Provare a farlo nascere! -. Dopo qualche secondo la sua semplice domanda - Te la senti di darmi una mano? - Mi spiegò che non avevamo alternative se non di perdere sicuramente madre e figlio. Tornammo su alle stalle con una lunga corda piatta da serranda. Fabrizio ne passò un capo sopra una sbarra di ferro della stalla e l’altro intorno alle zampe del vitello che erano a malapena in evidenza. Riuscimmo ad estrarlo tirando con calma e con forza verso l’alto. Poi tornammo in fretta a casa a preparare un "colostro" artificiale, che seppi era il  primo latte e serviva per disinfettare lo stomaco e l’intestino del vitello appena nato e che la madre per sofferenza non era in grado di dargli. Mischiammo così, in un bottiglione, tuorli d’uovo, latte e non so che altro.Il vitello e la madre si salvarono. Mi rendo conto che può sembrare un episodio da pubblicità di qualche amaro nazionale, ma quel subitaneo cambiamento da ore e ore di analisi e speculazioni rilassate ad un’ora di pratica d’emergenza mi colpirono profondamente e mi offrirono un’importante chiave di lettura per comprendere cose di Fabrizio passate e che seguirono, e l’idea della poesia popolare come di un’astrazione profondamente concreta e di una velocità meravigliosamente lenta.

Massimo Bubola