L'amore, la morte, le puttane, i ladri e altri compagni di strada

 

 

Lontano da una canzone intesa come gioco o stimolo alla divagazione così come da quella con funzione catartica e da quella con funzione di idealizzazione, Fabrizio De André sceglie, per la sua produzione, la funzione di rafftorzamento o duplicazione che spinge alla "intensificazione dei problemi o delle emozioni della vita quotidiana, in modo da portarle in evidenza e da renderne importante e inevitabile la considerazione o la compartecipazione"

Così, l'amore per De André non è il trepidante sentimento che fa rima con "cuore" bensì il leopardiano "amor, di nostra vita ultimo inganno", sempre inseguiito come eterno ("non ci lasceremo mai, mai e poi mai"), ma anche, sempre smentito dal caso ("sarà la prima che incontri per strada / che tu coprirai d'oro / per un bacio mai dato / per un amore nuovo").

Un caso che insidierà anche l'amore nuovo, il quale durerà lo spazio di un'altra emozione e le parole amorose pronunciate in quel frangente "fra un mese fra un anno", saranno già dimenticate.

L'amore però è anche follia ("Se mi vuoi bene / tagliati dei polsi le quattro vene"), sofferenza ("I tuoi larghi occhi / che restavan lontani / anche quando io sognavo / anche mentre ti amavo), morte ("e lui che non ti volle creder morta / bussò cent'anni ancora alla tua porta") , gioco ("il gioco divertì la graziosa / che molto

spesso alla fontana / tornò a bagnarsi pregando Dio / per un soffio di tramontana"), immaginazione ("Allora nei momenti di solitudine / quando il rimpianto diventa abitudine, una maniera di viversi insieme, / si piangono le labbra assenti / di tutte le belle passanti / che non siamo riusciti a trattenere"), ma comunque nel bene e nel male, è una chance da non perdere ("Quraudo carica di anni e di castità / tra i ricordi e le illusioni / del bel tempo che non ritornerà / [...] non ti servirà il ricordo / non ti servirà / che per piangere il tuo rifiuto / del mio amor che non tornerà.

Un sentimento, dunque, molto umano, molto terreno, lontano dai leziosismi idealisti e presentato per quello che è: la contraddittoria alternanza di bene e male che è poi il fondo stesso dell'agire umano.

Così, accanto all'amore del sentimento, l'amore materiale - quello dei corpi - negato dall'ipocrisia benpensante, occultato tra pareti discrete e dichiarazioni omertose, è riportato alla luce da De André senza mediazione, stagliando contro l'idiota mistificazione del non-detto figure nitide delle vestali della sessualità, sia quella mercenaria che quella per diletto.

Per farlo gli basta passeggiare per i vicoli della sua città e incontrare la bimba che "canta la canzone antica / della donnaccia / quel che ancor non sai tu lo imparerai / solo qui fra le mie braccia" e che "se alla sua età le difetterà / la competenza / presto affinerà le capacità / con l'esperienza

Per le stesse strade incontra la "graziosa" che "tutta notte sta sulla soglia / vende a tutti la stessa rosa" e la puttana che "se di amarla ti vien la voglia I basta prenderla per la mano"; ma De André, nel suo peregrinare "nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi" oltre a incontrare Princesa, il travestito che

a un avvocato di Milano "regala il cuore / e un passeggiar recidivo / nella penombra di un balcone", tra chi "l'amore lo fa per noia / chi se lo sceglie per professione" trova anche chi "lo faceva per passione" bocche infedeli al "sapor di fragola e miele" che sanno "che ogni letto di sposa / è fatto di ortica e mimosa" e che quindi,

come Jamina "lua de pelle scua / [...] sultan-a de e bagascie" , sanno che "C'è un amore un pò per tutti / e tutti quanti hanno un amore / sulla cattiva strada".''

Certo, quasi come in un ossimoro, incanto e disincanto camminano insieme nello sguardo di De André: così le puttane vengono avvolte da un alone romantico che, mitizzandone l'esistenza fa dimenticare le condizioni materiali - spesso intrise di miseria, violenza, dolore e sopraffazione - che possono spingere una donna a mercificare il proprio corpo.

Lo stesso avviene con i ladri e gli omicidi, immaginari compagni delle "bagascie" del porto, che vengono colti sempre nel loro aspetto più umano e grazie a ciò, poi, resi archetipi positivi della ribellione anti-borghese senza che però, di essi, ne venga data una lettura in chiave economico-politica che permetta un 'interpretazione precisa - scientifica - delle forme e delle determinazioni della loro esistenza.

E poi c'è la Morte, figlia della notte e sorella del sonno come la vuole il mito, per De André unica vera regina degli umani affanni, insensibile agli ori e al potere degli uomini così come alla seduzione della giovinezza e ai palpiti del cuore degli amanti. Giudice insindacabile e incorruttibile, la morte cantata da De André è quella stessa dipinta nell'apogeo del suo trionfo da Pieter Brueghel (Il trionfo della Morte): crudele quanto imparziale.

Vanificazione di ogni ambizione, di ogni arroganza ma anche di ogni speranza "la morte verrà all'improvviso / verrà senza darti avvisaglia" e non guarda in faccia a nessuno: non la madonna che alla fonte ristora "le membra stupende", non "i prelati, i notabili e conti" che, al contrario degli straccioni cui la morte porterà sollievo dal cilicio e dalla gogna, sopporteranno male la lovo fine.

È Francois Villon, a nutrire molte delle vene poetiche di Fabrizio De André. E come se Villon avesse tessuto la tela sulla quale De André è andato dipingendo il suo personalissinio Giardino delle delizie, nel quale Eden, Inferno e gioie dei sensi si integrano a vicenda senza soluzione di continuità.

Al di là di una dichiarazione "ufficiale" nella quale De André riconosce Villon "poeta della carità, per lo scandalo delle passioni sfrenate, per le risate scomposte a schermare inauditi dolori, per le inaccettabili sofferenze che sorgono dal tuo canto e toccano il cuore e la mente di chi legge", lo dimostra con evidenza l'album Tutti morimino a stento (1968).

Lì, Villon sembra tenere sottobraccio De André nella descrizione aspra e cruda dell'agonia dei disperati. Drogati, prostitute, criminali che attraversano la vita rifiutando la regola e cercando sempre altro fino alla dissipazione di sé: è questa l'umanità di Villon ma è anche quella di De André in Tutti morimmo a stento, che dal Cantico dei drogati, disperati che vivono la morte "con un anticipo tremendo" e che "dell'inumano varcando il confine" conobbero "anzitempo la carogna / che ad ogni amhito sogno mette fine" alla Ballata degli impiccati - la Ballade des pendus di Vilion - dove il condannato "non è più colpevole, giustamente o ingiustamente punito, ma diviene un'allegoria, come la carta dei Tarocchi, il simbolo della condizione umana, sempre sul bordo del male e della morte

I condannati dalla condizione umana vissuta, erano già emersi precedentementé nella poetica di Fabrizio De André.

Oltre le jeunes filles del piacere mercenario, De André aveva già cantato di Geordie, che per fame ruba "sei cervi nel parco del re vendendoli per denaro", di Michè assassino per Marì, così come dei ladri e gli assassini che "se tu penserai e giudicherai / da buon borghese / li condannerai a cinquemila anni / più le spese

Un'umanità composta da uomini e donne che, agli occhi di De André, "se non sono gigli, son pur sempre figli / vittime di questo mondo".

Ci vorrà il Sessantotto e tutto quanto avviene in termini di conflitto politico in Italia nei cinque anni immediatamente successivi, perché la marginalità sociale assuma per De André connotazioni storiche ed economiche più precise.

Fino ad allora i reietti resteranno appunto archetipi di vittime della storia cui non rimane altro che la soddisfazione di sapere che, nel suo trionfo, la morte colpirà anche i loro aguzzini.

Non a caso in Recitativo, i "dannati della Terra" si rivolgono agli "uomini senza fallo, semidei" che vivono "in castelli inargentati", ai

"banchieri, pizzicagnoli, notai / coi ventri obesi e le mani sudate / coi cuori a forma di salvadanai", ai "giudici eletti, uomini di legge" invitandoli ad andare "nelle sere di novembre / a spiar delle stelle al fioco lume / la morte e il vento, in mezzo ai camposanti / muover le tombe e metterle vicine / come fossero tessere giganti / di un domino che non avrà mai fine" e a sapere così, finalmente, che la morte li sorveglia "gioir nei prati o fra i muri di calce / come crescere il grano guarda il villano / finché non sia maturo per la falce".

La morte violenta per mano di un potere che rifiuta la diversità e non conosce pietà per chi ha emarginato è, per De André, il segno tangibile di un sopruso atavico che divide il mondo tra oppressori e oppressi, tanto che la stessa figura del Gesù cristiano diventa vittima del sistema, al pari dei ladroni che lo accompagnano sul Calvario. E infatti il fàlegnarne costruisce "tre croci, due per chi / disertò per rubare / la più grande per chi guerra / insegnò a disertare". Per lo stesso motivo, Tito, il ladrone "buono" nel Vangelo aralbo dell'infatizia, nel suo testamento è colui che "mette il dito nella piaga" delle contraddizioni del dogma religioso, una volta che quello venga calato nella storia di chi è costretto a confrontarsi con la realtà della propria precarietà esistenziale.

Ecco perché gli umili e gli straccioni, nell'osservare il Cristo morente, non faticano a riconoscere in lui uno di loro: "Non posso pensarti figlio di dio / ma figlio dell'uomo, fratello anche mio"

La morte, dunque, come 'a livella cantata da Totò, accomuna tutti, poveri e ricchi, sotto un metro di terra nel camposanto.

L'antologia dì Spoon River di Edgar Lee Masters offrirà a De André la possibilità di sviluppare, in forma ancor più approfondita, questo concetto. Sulla collina del cimitero "dormono" tutti: generali, puttane, chimici, ottici, giudici, suonatori di flauto e ciascuno, prendendo la parola, non può che ricordare a chi ancora vive la vanità delle certezze terrene e l'appuntamento finale che aspetta chiunque.

Un finale dove non ci sono né Paradiso né Inferno ("e non Dio, ma qualcuno che per noi l'ha inventato / ci costringe a sognare in un giardino incantato"); e pertanto il messaggio che in chiusura dell'opera De André affida al suonatore jones non può che essere quello di vivere, finché ci è dato da vivere, nel migliore dei modi, lontani dalle false credenze così come dai miraggi del successo e dell'abbondanza. La morte viene sempre all'improvviso, l'importante è andarsene con "ricordi tanti / e nemmeno un rimpianto


Francois Villon, poeta francese (1431 ca/ dopo il 1463) Maestro in arti e scrivano nell'ambiente ecclesiastico e giudiziario, appena libero dagli impegni ufficiali, Villon non ha mai disdegnato frequentare gli emarginati di Parigi tanto che, alla fine, di quelli ne adottò lo stile di vita. Nel 1435, in una rissa, Villon uccise un prete e ciò lo costrinse alla fuga. Graziato e ritornato a Parigi, Vilon dovette quasi subito abbandonare nuovamente la città per aver compiuto, con cinque compagni, un furto al Collège de Navarre.

Di lui si sa poi che venne condannato a morte e che riuscì a far tramutare la condanna in esilio. Dopo il 1463 di Francois Villon si perdono definitivamente le tracce.

Tra le sue diverse opere si ricorda 1l Testamento, duemila versi in cui l'autore manifesta tutto il suo odio verso la Chiesa, il mondo dei commercianti nonché quello degli usurai e degli speculatori finanziari, fornendoci l'immagine della nascente borghesia che in Francia, dopo la guerra dei cent'anni, si andava affermando a scapito della nobiltà. Accanto a quel mondo borghese, Villon fa convivere i miserabili e i malviventi, uniti dal comune denominatore dell'avidità di denaro la cui mancanza spinge alla povertà, alla fame e alla delinquenza. Tema dominante delle sua opera è la morte cui è legata, tra l'altro, la Ballata delle dame del tempo che fu (Ballade des dames du temps jadis) nella quale è sintetizzata la malinconia per la fugacità della bellezza femminile e, per reazione, l'attaccamento alla vita, alle donne e all'amore da parte dell'autore. Molteplici, come si vede, i punti di contatto della poetica di De André con quella del poeta francese.