Villon - De André (Tutti morimmo a stento).

 

Nell'album Tutti morimmo a stento, De André canta la parte "sporca" della coscienza umana, quella nella quale si trovano le debolezze morali, il rifiuto o l'incapacità di rispettare le regole, quelle regole che sono diretta espressione della società che le ha volute, della "maggioranza". Per De André,

…oggi maggioranza ha un significato numerico, ma deriva dal termine latino maior, che al plurale fa maiores. I maiores nel mondo latino erano coloro che detenevano i privilegi ed esercitavano l'autorità e il potere. Oggi questi maiores sono diminuiti di numero, ma la loro diminuzione è direttamente proporzionale all'aumento in loro favore dei privilegi, dell'autorità, del potere, (ormai) pressoché illimitati […]. I minores […] saremmo poi tutti noi al di là del mestiere che facciamo…

Per questo motivo, chi rifiuta queste regole non è un criminale da punire, ma una vittima che si ribella, che cerca una libertà che non potrà avere. Quindi De André canta l'anelito alla ricerca di "altro" e di "oltre", che poi si risolverà nella dissipazione e perdita di sé. Canta i disadattati, facendone dei ribelli verso la maggioranza, verso il sentire comune ed il pensiero unico. Questi personaggi condannati dalle leggi dei majores, col loro sentire confondono l'ordine precostituito, eliminando il principio della contrapposizione netta tra bene e male, presentandoci una vita fatta di intrecci difficili, di azioni e scelte ingiudicabili. Come emblema di tale universo, De André prenderà la figura di François Villon, poeta e uomo "contro", e la sua poesia: ballade des pendus.

La canzone di De André in cui più forte è l'eco di Villon è Ballata degli impiccati, e già dal titolo sentiamo il chiaro riferimento al poeta francese del Quattrocento. Esaminando il testo possiamo intuire come per entrambi, De André e Villon, l'impiccato non sia un criminale da condannare, ma un simbolo: il simbolo della condizione umana, che vede l'uomo come un disperato in agonia, che cammina sempre su un filo teso tra il male e la morte. Ancora, in comune c'è la descrizione di particolari aspri:

…l'urlo travolse il sole

l'aria divenne stretta…

chi la terra ci sparse sull'ossa...

un rancore che ha l'odore del sangue rappreso

così De André, mentre Villon:

…la nostra carne troppo nutrita

da un pezzo è divorata e imputridita…

la pioggia ci ha lavati e ripuliti

e il sole seccati e anneriti.

Le gazze, i corvi ci hanno cavato gli occhi

E strappata la barba e i sopraccigli…

Ci sono i segni dell'agonia e della crudeltà; De André:

ricordammo a chi vive ancora

che il prezzo fu la vita

per il male fatto in un'ora.

Poi scivolammo nel gelo

Di una morte senza abbandono

Recitando l'antico credo

Di chi muore senza perdono.

Chi derise la nostra sconfitta

E l'estrema vergogna ed il modo…

Villon:

…non siate duri di cuore con noi…

del nostro male nessuno voglia ridere…

noi siamo morti, nessuno ci sbeffeggi…

umani, qui non c'è proprio da scherzare…

C'è dunque l'invito a un sentire comune tra impiccato e spettatore, poiché se così non fosse, commetterebbe peccato chi riuscisse a proseguire "tranquillo il cammino" dopo aver sepolto il condannato; De André:

…chi derise la nostra sconfitta

e l'estrema vergogna ed il modo

soffocato da identica stretta

impari a conoscere il nodo.

Chi la terra ci sparse sull'ossa

E riprese tranquillo il cammino

Giunga anch'egli stravolto alla

fossa

Con la nebbia del primo mattino

La donna che celò in un sorriso

Il disagio di darci memoria

Ritrovi ogni notte sul viso

Un insulto del tempo e una scoria…

Villon:

Fratelli umani che ancora vivete…

Se pietà di noi poveri avete,

Dio avrà più presto di voi misericordia…

Se vi chiamiamo fratelli, non dovete

Risentirvi, benché ci abbia uccisi

La Giustizia…

Ciò che invece cambia tra i due è il modo di porsi all'altro. De André lo fa con l’invettiva, augurando allo spettatore le medesime sensazioni e gli stessi dolori, affinché capisca ciò che prova l'impiccato; Villon lo chiama "fratello", invitandolo a pregare per lui e gli altri impiccati, nella misericordia di Dio, il quale avrà misericordia anche di loro.

Dirà tre volte De André:

…soffocato da identica stretta

impari a conoscere il nodo…

giunga anch'egli stravolto alla fossa

con la nebbia del primo mattino…

ritrovi ogni notte sul viso

un insulto del tempo e una scoria…

mentre cinque volte aveva invocato Villon:

…Dio pregate che ci voglia assolvere…

intercedete per noi, che siamo morti…

Dio pregate che ci voglia assolvere…

Dio pregate che ci voglia assolvere…

Dio pregate che ci voglia assolvere.

Mentre Villon aveva insistito per tre volte sullo sbeffeggiare degli spettatori, De André si limita ad una:

…del nostro male nessuno voglia ridere…

noi siamo morti, nessuno ci sbeffeggi…

umani, qui non c'è proprio da scherzare… (Villon)

…chi derise la nostra sconfitta… (De André).

Vediamo quindi come i due autori sono legati nei contenuti da un filo comune, da un rapporto che sembra quello esistente tra maestro e allievo. Dirà, infatti, lo stesso De André nella prefazione ad un libro delle poesie di Villon

…C'è un filo o piuttosto una corda spessa, che lega l'antico maestro ai suoi allievi dalle più disparate inclinazioni: per primo tra i profani tu hai dato alla forca dignità poetica, hai fatto dell'appeso qualcosa di sacro, di eterno, simbolo inquietante di impermanenza e disagio. […] Eppure altri prima di te, altre vite avevano preceduto la tua lungo più antiche agonie della civiltà ma tu sei stato il primo a indicare che una volta chiusa la croce nel silenzio dei templi gli uomini ne perpetuavano lo scandalo con la forca. […] Io ti scrivo da un'altra epoca illuminata di ragione e di tecnica, dove l'uso della corda "che fa sapere al tuo collo quanto pesa il tuo culo" si è fatto più raro e lontano senza tuttavia scomparire del tutto. La stessa guerra, rinnovatasi di cento in cento anni, non è ancora finita e gli uomini amano come allora menare le armi e le mani e se non ci sono più le caldaie per far bollire i falsari, gli strumenti per dare la morte si sono perfezionati al punto che uno solo di quei cento onnipotenti, un solo Thibault d'Aussigny può decretare la fine dell'umanità in un tempo così breve quanto la pressione di un dito su un pulsante. […] una moderna forma di indagine […] ci informa che oggi siamo tutti molto più ricchi di quanto non lo fossero i tuoi contemporanei, eppure le richieste d'aiuto da parte dei poveri si fanno ogni giorno più disperate e impellenti […]. Ancora oggi siamo capaci di forti sentimenti ma più volentieri li trasformiamo in lacrime seduti a teatro di fronte al dramma di Oreste e di Amleto e ritornando a casa ad occhi asciutti non degniamo neppure di uno sguardo la nostra vicina intenta a contare gli spaghetti per sfamare i figli. Se la tua "grossa Margot" "ti montava da sopra per non sciupasi il frutto", qui da noi stimati professionisti violentano le bambine più volentieri mettendosele di sotto e usano una moderna tecnica di fissaggio delle immagini per immortalare lo stupro […].

Da queste righe che l'"allievo" scrive per il "maestro", si comprende la visione di una ciclicità storica ed il ripetersi dei soprusi e delle ingiustizie in un divenire che non cambia mai nei contenuti nonostante i continui cambiamenti delle forme. De André spiega, in questa prefazione e nella canzone, come la ricchezza pro capite, gli sviluppi scientifici e l'evoluzione del diritto, se non accompagnati da sogni comuni, da utopie, ideali, o meglio da un sentire comune (soprattutto nel dolore e nella sofferenza), dalla "pietas" insomma, non bastano a migliorare la vita dell'uomo, soprattutto quella dei "minores". E lo stesso De André aveva affermato che "l'uomo potrebbe conquistare le stelle, ma i suoi problemi fondamentali resteranno gli stessi". E ancora che "un uomo senza sogni, senza utopie, senza ideali, sarebbe un mostruoso animale, un cinghiale laureato in matematica pura".

Le sue frequentazioni della poesia di Villon si possono riscontrare ancora confrontando il testo della canzone Valzer per un amore con un passo del Testamento di Villon, nella parte dedicata alla Ballata all'amica. Qui l'immagine della giovinezza e della passione che svanisce con l'incalzare della vecchiaia diventano un monito che i protagonisti lanciano alla donna amata perché colga subito il fiore del piacere e dell'amore, senza aspettare il tempo in cui non sarà più possibile.

…Tempo verrà che ben farà appassire,

Seccare, sfiorire il tuo fiore superbo…(Villon).

Quando carica d'anni e di castità

Tra i ricordi e le illusioni

Del bel tempo che non ritornerà

Troverai le mie canzoni

Nel sentirle ti meraviglierai

Che qualcuno abbia lodato

Le bellezze che allor più non avrai

E che avesti nel tempo passato… (De André).

Qui sia Villon che De André cantano di come il passare degli anni porti via con sé le bellezze della giovinezza, ma mentre Villon è molto sintetico De André indugia sull’ immagine dell'amata che da vecchia troverà le canzoni che l'innamorato respinto scriveva per lei da giovane meravigliandosi nel sentir parlare di bellezze che non ha più.

…Io sarò vecchio, tu brutta, scolorita,

Bevi a piena gola fino a che c'è acqua;

Non dare a tutti lo stesso dolore:

Senza infierire soccorrere chi soffre… (Villon).

Vola il tempo, lo sai che vola e va,

forse non ce ne accorgiamo,

ma più ancora del tempo che non ha età,

siamo noi che ce ne andiamo.

E per questo ti dico amore, amor

Io t'attenderò ogni sera,

ma tu vieni non aspettare ancor,

vieni adesso finché è primavera… (De André).

Possiamo osservare come i versi sono molto diversi, ma i contenuti sono pressoché identici. Per entrambi c'è l'invito a godere, finché è possibile, dei frutti che la vita ci offre, senza rimandare fino a quando non sarà più possibile coglierli. Bere finché c'è acqua, cogliere il fiore finché è primavera. Questo, tra l’altro, è un motivo ricorrente nella letteratura sia italiana (tra gli altri, Lorenzo il Magnifico), che latina (tra gli altri, Orazio).

Sempre restando al Testamento di Villon possiamo notare come echi di quest'opera siano presenti anche in un'altra canzone di De André, Il testamento, in cui il richiamo al poeta francese è evidente anche nella scelta del titolo. Questa canzone è appunto il testamento dei beni che un uomo lascia ai i suoi "cari", che probabilmente resteranno delusi dai lasciti del morto. De André adotta la struttura metrica di strofe di otto versi, come Villon. Il moribondo lascia a ognuno qualcosa, che si tratti di beni materiali o meno questo poco importa, è il senso del lascito che conta per svelare gli affetti, i rancori e, in sostanza, la natura dei sentimenti che legano il morto a coloro che restano. Questa canzone si inserisce in quel filone della letteratura che nel Quattrocento francese ha dato molti capolavori e al quale lo stesso Villon aveva attinto. Non vi è però, né in De André né in Villon, il riferimento, tipico di quella tradizione, a quella danza macabra della morte che prende per mano tutti, a qualunque categoria sociale appartengano, per farli ballare insieme. Ma qui non c'è una sola condizione umana che valga qualcosa di fronte alla morte, non c'è il conforto di essere morto come tutti gli altri, c'è al contrario lo sconforto di essere morti e di essere morti da soli. Nessuno in punto di morte può alleviare la sofferenza dell'addio. Non c'è sdegno contro tutto ciò, ma solo un sentimento di impotenza che viene dalla constatazione di quest'ultima solitudine.

Chiunque muore, muore con dolore[…]

Né c'è chi dei suoi mali lo sollevi… (Villon).

…Cari fratelli dell'altra sponda

Cantammo in coro giù sulla terra

Amammo in cento l'identica donna

Partimmo in mille per la stessa guerra.

Questo ricordo non vi consoli

Quando si muore, si muore soli.

Questo ricordo non vi consoli

Quando si muore si muore soli…(De André).

Anche qui i versi sono completamente diversi, c'è una forte manipolazione da parte di De André che prende da Villon solo i contenuti, li usa per chiudere la canzone, mentre in Villon questi versi precedono i lasciti assolvendo ad un funzione introduttiva.

È presente poi in Villon una breve disquisizione sulla natura delle donne che offre a De André lo spunto per un lascito:

…Così, secondo questa usanza, si presero

L'amante, è tutto chiaro:

Amavano tenendolo nascosto,

Visto che nessun altro ci passava.

E tuttavia questo amore poi si spezza,

perché quella che ne aveva uno solo

Da lui si stacca e va per la sua strada

E preferisce amarli tutti quanti […]

I folli amanti ne pagano lo scotto

E le signore li battono sul tempo.

È la giusta ricompensa che tocca agli amanti,

ogni patto vi è sempre violato.

Per qualche dolce bacio o qualche abbraccio,

con cani e uccelli, armi e amori,

È pura verità ben nota a tutti -

Per una gioia cento dolori… (Villon).

…Voglio lasciare a Biancamaria

Che se ne frega della decenza

Un attestato di benemerenza

Che al matrimonio le spiani la via

Con tanti auguri per chi c'è caduto

Di conservarsi felice e cornuto… (De André).

Questo è il primo riferimento al Testamento di Villon che troviamo nell’omonima canzone di De André. Da Villon prende il succo dei versi: le donne seguono la regola di amare un uomo alla volta, ma prima o poi questo amore finisce, allora da "uno solo" si passa ad amare "tutti quanti". Ciò significa per Villon che alle donne un solo uomo non basta. E ciò non è una colpa, poiché dipende proprio dalla loro natura, è una condizione propria dell'essere donna. Perciò all'uomo che di una donna si innamora non resta, per una sola gioia, che sopportare cento dolori. De André nel suo testamento, in modo ironico, fa di questa natura un attestato di benemerenza per la disinvolta Biancamaria che essendo donna e fregandosene della decenza inventata dall'uomo, dà libero sfogo ai suoi sensi. Questo attestato deve servirle a trovare un marito, al quale il moribondo non può che augurare di conservarsi felice, poiché le inclinazioni di Biancamaria sono naturali, ma cornuto poiché in pratica questa è la condizione che gli sarà propria alla luce delle convenzioni sociali.

Scorrendo tra i lasciti di Villon, arriviamo a quello per la moglie:

… al mio amore, alla mia cara rosa,

Non lascio il cuore e neanche i fegato;

Le piacerebbe di più qualche altra cosa,

Benché abbia abbastanza denaro…

E cosa? Una gran borsa di seta,

piena di scudi, ben profonda e larga,

Ma che sia subito impiccato, me compreso,

Chi le lasciasse né scudo né targa… (Villon).

… Per quella candida vecchia contessa

che non si muove più dal mio letto

per estirparmi l'insana promessa

di riservarle i miei numeri al lotto

non vedo l'ora di andar fra i dannati

per riferirglieli tutti sbagliati… (De André).

In questo lascito c'è un luogo comune, quello della satira contro le donne avide di soldi, verso le quali si scaglia però l'ironica vendetta di De André. Infatti se Villon lascia maledizioni a chi voglia assecondarle, De André le prende in giro rivelando l'intenzione, tra l'altro tutta napoletana, di rivelare da morto, in sogno, i numeri del lotto, ma naturalmente quelli sbagliati.