"La canzone è un testo cantato".

Parole e musica in De André (di Umberto Fiori)

Sarebbe sbagliato e fuorviante, io credo, parlare dei rapporto tra testo e musica nel lavoro di un autore di canzoni così come se ne parlerebbe in quello di un compositore "colto". Lo dico non per ribadire una gerarchia di generi e di valori, ma perché mi sembra doveroso fare onore alle differenze tra i due universi musicali, differenze che sono significative e che possono aiutarci, forse, a capire meglio le particolarità di un oggetto ibrido e complesso come la canzone. Cerchiamo di considerarne qualcuna, prima di entrare nel vivo del lavoro del nostro autore.

Bisogna intanto ricordare che - specialmente nell'ultimo secolo - il compositore "colto" si è allontanato a grandi passi dai suoi trascorsi di "artigiano" dei suoni per diventare - in un senso sempre più pieno - un creatore. La sua ambizione è stata quella di inventare non soltanto un oggetto musicale, ma anche, e a volte principalmente, il linguaggio che lo fonda e lo governa, se non addirittura un'idea di musica completamente; nella canzone, invece, anche il musicista più ardito lavora su schemi sostanzialmente precodificati , che si sono sì rinnovati nel corso del tempo, ma non certo nelle proporzioni in cui questo è avvenuto in ambito "colto".

Possiamo dire, insomma, che caratteristica della canzone è una relativa stabilità degli aspetti musicali, simile a quella che si registra nelle culture popolari, tradizionali, da cui essa proviene. Un autore di canzoni - e a maggior ragione un cantautore non è e non aspira a essere un compositore nel senso in cui la nostra modernità musicale ha inteso questo termine: il suo rapporto con i materiali musicali assomiglia, piuttosto, a quello di chi - in una cultura folklorica - recupera, manipola, rielabora e rimescola stilemi e forme depositati nella memoria collettiva. E’ difficile pensare, del resto, che il linguaggio musicale (ma lo stesso vale per quello poetico) sviluppi radicalmente e in tutta autonomia le sue potenzialità nell'ambito di un genere la cui forza consiste in un patto di alleanza (o - più spesso - in un compromesso) tra le istanze della musica e quelle del testo. Proprio in nome di una ritrovata unità tra poesia e musica si è voluta accostare, negli anni che hanno visto il boom della canzone d'autore, la figura del cantautore a quella del trobadour provenzale. L'accostamento è suggestivo, ma rischia di confonderci le idee: è giusto in quell'ambito culturale e in quell’epoca, infatti, che poesia e musica cominciano invece ad allontanarsi, a emanciparsi l'una dall'altra, spezzando l'unità tra arte della parola e arte dei suoni che ancora si conserva in culture lontane dalla nostra. Nel corso di un processo secolare, la poesia europea si libera sempre di più dalla presenza della voce viva, per consegnarsi al silenzio della pagina, mentre la musica cerca un linguaggio di puri suoni. Questo non significa, naturalmente, che scompaiano del tutto le forme d'espressione che utilizzano entrambi i linguaggi; e tuttavia, il rapporto tra poesia e musica nella nostra civiltà non può prescindere dal divorzio tra le due arti, avvenuto secoli fa: quello a cui si assiste - a ogni livello e in ogni genere - e sempre un incontro fra linguaggi storicamente separati e distinti, ciascuno con una propria vicenda, una propria identità, un proprio "statuto" estetico.

Naturalmente, l'incontro assume forme diverse da un genere all'altro, da un'epoca all'altra: il connubio fra parole e suoni nell'ambito del madrigale non avrà gli stessi caratteri di quello che avviene nel melodramma, o nel lied. A me è parso - anni fa - di poter definire il rapporto tra testo e musica nella canzone a partire dalla nozione di parodia. La parodia - cioè l'applicazione di un nuovo testo a una melodia preesistente - è a dire il vero una pratica ben delimitata e particolare (oggi si pensa soprattutto ai suoi potenziali effetti comici, ma si è ricorso e si ricorre a essa anche "seriamente", cantando cose nuove sull'aria dei motivi più popolari). Se, però, pensiamo a ciò che si diceva poco sopra a proposito della relativa "stabilità", della tendenziale convenzionalità della parte musicale della canzone rispetto alle pratiche e agli sviluppi della musica "colta", la nozione di "parodia" può forse dar conto delle peculiarità del rapporto tra testo e musica nell'ambito di questo genere.

Una canzone nasce di solito dall'applicazione di un testo a una melodia: questa è la pratica più diffusa tanto fra i parolieri quanto fra i cosiddetti "cantautori" (nei quali, come si sa, il testo assume un ruolo decisamente preponderante). A differenza di quanto avviene di norma in ambito "colto", insomma, nella canzone la musica per lo più precede le parole, che vengono scritte a partire da uno schema metrico-musicale già stabilito (da un musicista o dallo stesso autore del testo, nel caso di un cantautore). Che questo valga anche per il lavoro di De André è lo stesso autore a confermarcelo, in un'intervista rilasciata a Doriano Fasoli:

"La canzone è un testo cantato. Poi la musica può essere più o meno bella, tanto meglio se è bella, ma deve accordarsi soprattutto con il testo. Quando non succede che la cosa miracolosamente nasca insieme (a me è successo in tre o quattro occasioni), cioè che il testo nasca insieme alla musica, quindi nasca già cantato, quando non succede questo in ogni caso è meglio far precedere la musica al testo, perché il testo è più malleabile, più duttile di quanto probabilmente non lo sia... cioè, musicare un testo in metrica difficile o in metrica difficile (…) risulta assai più difficoltoso che non adattare un testo ad una musica."

Come si vede, l'esperienza dell'autore che qui ci interessa conferma che nella canzone la musica precede per lo più le parole (tranne "miracolose" eccezioni); le precede, ed è loro subordinata - nella produzione "d'autore" - anche dal punto di vista della rilevanza estetica. De André sottolinea una tale subordinazione senza mezzi termini: è il testo che conta; la musica "può essere più o meno bella". Se prendessimo alla lettera questa sua dichiarazione saremmo portati a concepire la parte musicale di una canzone come una sorta di piedistallo "neutro", una struttura "di servizio" tendenzialmente intercambiabile; naturalmente, le cose non stanno così (e De André lo sa benissimo): se è vero che la musica di una canzone non vuole essere valutata dì per sé, se è vero che non ambisce a un'assoluta originalità, e anzi può ridursi a un assemblaggio di elementi "prefabbricati", è però anche vero che la scelta di quali elementi utilizzare tra i tanti disponibili nel grande magazzino della musica leggera è decisiva sotto molti aspetti. Intanto - come è ovvio - il carattere di un testo può cambiare e addirittura rovesciarsi nel caso che venga applicato - mettiamo -a una mazurka o a un blues: la pratica della parodia, su cui si fonda la canzone, parte proprio dal contrario di un'idea di inerzia, di neutralità del "supporto" musicale. Soltanto attraverso la consapevolezza di ogni minima sfumatura di senso degli elementi "prefabbricati" che utilizza, un autore può controllare che il rapporto fra testo e musica non gli sfugga di mano e che la parodia non sviluppi le sue tensioni in direzioni indesiderate. Ogni cliché musicale contiene già un orizzonte di significati, e ce ne sono alcuni che rischiano di disarcionare chi tenta di cavalcarli; è il caso, ad esempio, di Spiritual (1967, dove il testo - né migliore né peggiore, in sé, di altri dello stesso autore - fatica a conservare il proprio contegno, la propria fisionomia, in sella a una musica estroversa e caciarona che scalcia e sgroppa per conto suo (rimandiamo a più tardi una riflessione sul ruolo della voce). La scelta di un certo clìché musicale, inoltre, può contribuire - ed è il caso di De André - a rendere più chiari i contorni di una personalità creativa, anche quando il valore di questa personalità si gioca su un altro piano. Il "supporto" musicale che Fabrizio (così si chiamava ancora) scelse ai suoi esordi - un misto di George Brassens, "folk" e musica classica - non era in sé più originale del rock and roll o dello yé-yé che allora emergevano, ma nella musica leggera italiana di quegli anni faceva l'effetto di una mosca bianca, e soprattutto - grazie all'assenza della batteria e in generale di ogni enfasi ritmica - metteva nel giusto risalto il piatto forte: i testi. La (relativa) eccentricità del "prefabbricato" musicale utilizzato era lì a sottolineare la diversità del mondo poetico di De André nel contesto della casi canzone italiana dell’epoca. L'effetto di sottile anacronismo che producevano le musiche e gli arrangiamenti dei primi quarantacinque giri si rivela un elemento indispensabile a produrre quella sensazione di lontananza, di sospensione del tempo, quell'atmosfera da stampa popolare, da allegoria, in cui si muovono personaggi come Michè, come Piero o come le figure femminili di Via del campo (1967). Anche quando si esibiscono il realismo più crudo, anche quando sembrano alludere alla cronaca contemporanea, le storie di De Andrè (penso alle prime canzoni, ma anche a Storia di un impiegato (1973) galleggiano in un'epoca dai contorni incerti, che con la nostra ha legami labili e indiretti. Per questo è difficile concepire i versi di canzoni come La canzone di Marinella (1964) applicati a un supporto "moderno" come il rock (la collaborazione con la Premiata Forneria Marconi è lì a mostrare quanto poco basti a rompere un equilibrio delicatissimo): perché i testi di questo autore possano "passare", possano respirare la loro aria e farsi davvero presenti (non presenti, cioè, come pura citazione di se stessi), ci vuole un "habitat" musicale il più possibile lontano da un'idea "attuale" di musica leggera. Niente è più estraneo alla poetica di questo autore - mi pare - dell'esuberanza di uno strumentista, dell’energia" di una rock band; e anche certi cori, certi interventi strumentali, certi arrangiamenti "ricchi" e "aggiornati" (nei primi dischi come nei successivi), fanno uno strano effetto. Cosa diavolo c'entrano - ci si chiede - questi onesti professionisti della musica leggera, questi turnisti, questi arrangiatori, con Fabrizio De André?

E tuttavia, com'è comprensibile, De André ha sentito la necessità, nel corso della sua lunghissima carriera, di cercare nuovi "paesaggi musicali" nei quali collocare i suoi testi, anche senza che il cambiamento appaia sempre motivato da un rinnovamento significativo della sua scrittura. L'ambientazione sonora, semplice asciutta e rétro, dei primi successi a un certo punto comincia a lasciare il posto a violini, oboi e trombe che sembrano voler sottolineare, più che assecondare, la "qualità superiore" del prodotto; questi lussi orchestrali si arricchiscono ancora, in Storia di un impiegato, di un materiale musicale più "al passo coi tempi", nel quale non è difficile indovinare influenze "progressive" soprattutto inglesi, e addirittura, anni dopo, fa capolino la battèria. Che la ricerca sia stata e difficile lo dimostrano le svolte e gli andirivieni stilistici che nel corso degli anni portano De André volta a volta a "sinfonizzare" la sua musica, ad "americanizzarla" o a "mediterraneizzarla", e infine a condividere con altri la responsabilità delle scelte musicali riservandosi il ruolo di interprete e di paroliere de Iuxe. L'impressione più netta, riascoltando la produzione di tutti questi anni, è che il suo rapporto con la musica sia caratterizzato fondamentalmente dalla volontà di liberare per quanto possibile il testo dai vincoli, dagli schemi obbligati, dagli appuntamenti fissi che l'arte dei suoni tende a imporre. In fondo, l'ideale di questo autore (ideale mai realizzato integralmente) sembra essere quello di un testo cantato che si muova secondo l'impulso variabile della melodia, del discorso e del respiro, sopra un accompagnamento il più possibile "fluido", più armonico che ritmico.

Nella produzione più matura, la ricerca di una parola che danza sulle gabbie della musica è particolarmente evidente, ma già nelle prime canzoni, De André manipola testo e musica con la libertà e la disinvoltura di un anonimo autore popolare (il modello di Brassens non è comunque di minore importanza): alla metrica musicale di partenza si attiene senza troppo rigore, forzandola se gli pare necessario, anche quando le "licenze" sembrano minacciare l'integrità della melodia. La melodia-base è soltanto un canovaccio, che di volta in volta può e deve piegarsi alle esigenze di quello che c'è da dire. E così, ad esempio, che il primo verso delle due strofe iniziali di Bocca di Rosa (1967), che in teoria dovrebbe tenersi ogni volta alla medesima metrica, si allunga e si accorcia e varia da un'occorrenza all'altra, spostando gli accenti del decasillabo-base, trasformandosi in endecasillabo, ritraendosi a novenario o dilatandosi fino a un dodecasillabo:

La chiamavano Bocca di Rosa (decasillabo) [...]

Appena scesa alla stazione (novenario)[...]

Ma la passione spesso conduce (decasillabo) […]

E fu così che da un giorno all'altro (decasillabo) [...]

Si sa che la gente dà buoni consigli (dodecasillabo) [...]

Così una vecchia mai stata moglie (decasillabo) [...]

E quelle andarono dal commissario (endecasillabo) [...]

Ed arrivarono quattro gendarmi (endecasillabo) [...]

Alla stazione c'erano tutti (decasillabo) [...]

A salutare chi per un poco (decasillabo) [...]

Ma una notizia un po' originale (decasillabo) [...]

E alla stazione successiva (novenario) [...]

Persino il parroco che non disprezza (endecasillabo)[...]

E con la Vergine in prima fila (endecasillabo) [...]

 

La stessa elasticità ritmica si riscontra in La guerra di Piero (1964), dove nella medesima nicchia metrico-musicale capita che si collochino ora un endecasillabo ora un decasillabo:

Dormi sepolto in un campo di grano (endecasillabo) [...]

Fermati Piero, fermati adesso (decasillabo) [...]

 

in La canzone di Marinela:

Questa di Marinella è la storia vera (dodecasillabo) [...]

Sola senza il ricordo di un dolore (endecasillabo) [...]

 

O nel Cantiro dei drogati (1968), dove alla quartina regolare di settenari che fa da modulo a tutta la canzone può succederne una in cui spuntano un novenario e un ottonario (l'effetto di intenzionale asimmetria e di "licenza" è accentuato qui dal fatto che i due versi fuori misura sono proprio quelli rimati):

Mi citeran di monito

a chi crede sia bello

giocherellare a palla

con il proprio cervello.

 

cercando di lanciarlo

oltre il confine stabilito

che qualcuno ha tracciato

ai bordi dell’infinito.

 

D André tende a considerare la linea melodica non come uno schema obbligato ma come una sorta di "traccia" alla quale il testo si adatta, senza però lasciarsene condizionare più di tanto. Neanche traducendo La Marche nuptiale del suo amatissimo Brassens il giovane Fabrizio si fa scrupolo di riprodurre fedelmente l'andamento dei versi; così,

Mariages d 'amour, mariages d 'argent

diventa, nella sua versione,

Matrimoni per amore, matrimoni per forza

senza peraltro che tra la melodia originale e il testo italiano si avverta, nell'esecuzione, un conflitto significativo.

Questa caratteristica disinvoltura metrica, sostenuta da una notevole sapienza interpretativa, permette tra l'altro a De André - come quest'ultimo esempio ci dà modo di osservare - di evitare quelle vere e proprie forche caudine del paroliere italiano che sono le tronche a fine verso imposte dalla musica. La tronca (d'argent) viene qui semplicemente sgretolata, e trasformata in una piana (per forza): il testo fa valere senza timidezze i suoi diritti, a spese della musica.

Negli stessi anni in cui la maggior parte degli autori (compresi molti cantautori) si rassegnano a costruire i loro testi attorno a una manciata di parole ossitone, il padre di La canzone di Marinella lavora pervicacemente a un verso italiano naturalmente "piano" e libero, per nulla intenzionato a sottostare ai diktat della melodia. Forse in nessun cantautore come in lui il primato del testo (e del suo rapporto con la lingua reale, parlata) si è affermato con tanta decisione; pochi hanno affrontato tanto di petto questioni tecniche apparentemente insormontabili, risolvendole in uno stile che ha aperto la strada alla nuova canzone, non solo d'autore.

Fin qui abbiamo parlato dei rapporti tra testo e musica nel lavoro di De André come autore; ma non si può dimenticare che l'uno e l'altra, nella canzone, sono sempre fondamentalmente mediati da una voce. Questo è vero - beninteso - in tutta la musica vocale, compresa quella "colta"; ma nella canzone (e più che mai nella canzone d'autore) la cosa assume aspetti molto particolari: più che la mediatrice di un'opera, la voce - questa voce precisa, insostituibile - è qui la vera e più profonda sorgente di quell'opera, la precede (a dispetto delle apparenze) e la fonda. Estremizzando, si potrebbe affermare che ciò che De André ha davvero creato è la sua voce, di cui testi e musiche costituiscono - per così dire - le condizioni d'ascolto. Quando ascoltiamo Preghiera in gennaio (1967) o Il pescatore noi ascoltiamo attraverso parole e musica - una voce.La voce di De André dice, da sola, più di quanto dicano le sue canzoni. L'anticonformismo che nei testi ha bisogno di esplicitarsi, di oggettivarsi in personaggi e discorsi, in realtà è già tutto nel rifiuto del canto "all'italiana" come di ogni manierismo canzonettistico vecchio e nuovo. Questa voce profonda, calda, solenne, ridisegna lo spazio della musica leggera, lo sottrae alla platealità, agli urli e ai sospiri, per portarlo a una concentrazione, a un raccoglimento e a un'interiorizzazione estrema (tanto da darci l'impressione, a volte, che invece di uscire le parole entrino nella bocca di chi le canta). La corporeità, la fisicità che la musica leggera esibisce, in De André implode (forse anche da questo nasce la resistenza ad apparire dal vivo) e fa lievitare le parole dal loro interno. In un mondo musicale popolato dai gorgheggi degli innamorati e dai chicchirichì dei giovani eroi di turno, De André ha avuto per primo il coraggio dì incarnare la voce inattuale della riflessione lirica e dell'esperienza.

Parlando del lavoro in preparazione di Creuza de ma, l'autore riferisce un'osservazione di Mauro Pagani che mi ha colpito e che mi sembra rivelatrice della distanza tra De André e i valori musicali vigenti. "Guarda - avrebbe detto il musicista al cantautore - che attraverso questo tipo di melodia, questo tipo di strumenti, attraverso quello che stai dicendo, non è giusto che tu canti nelle tonalità basse (affascinanti, seducenti evocative finché vuoi); bisogna che canti davvero".

Forse senza rendersene conto, Pagani metteva in luce una verità paradossale: senza mai "cantare davvero" (cioè senza mai cantare come si canta, come cantano tutti) Fabrizio De André è stato tra i pochi, in questi ultimi quarant'anni, a cantare veramente.

Umberto Fiori