Princesa.

Con questo paragrafo mi accingo a chiudere lo studio su De André per passare a quello su Guccini. Ma prima di dedicarmi ai testi delle canzoni dell'ultimo album della carriera del grande cantautore genovese sarà bene ricordare le tappe intermedie più significative tra Non al denaro non all'amore né al cielo e Anime salve. Tali tappe sono quelle degli album Storia di un impiegato, del 1973, Fabrizio De André (Indiano), del 1981, Creuza de mä, del 1984 e Le nuvole del 1990.

Nell'album Storia di un impiegato De André fa una riflessione sul passato periodo della rivolta giovanile chiarendo come ogni sovvertimento porta non ad una società nuova, ma alla sostituzione di un potere con un altro. Ne viene fuori anche una affresco di quello che stava diventando l'Italia degli anni '70, degli anni di piombo e delle Brigate Rosse per intenderci. Questo era il tempo in cui la rivolta isolata dei "bombaroli", che volevano abbattere il potere, in effetti non fafaceva altro che rafforzarlo dandogli persino la possibilità di "perdonare" alla fine i "criminali", in un clima di pacificazione nazionale, e di affossare definitivamente qualsiasi prospettiva di cambiamento. In questo album De André parla della lotta di classe scegliendo l'immedesimazione in un impiegato, lo stesso che durante il sessantotto si preoccupa dei giovani standosene nel suo ufficio, o scambiando il "buon natale" e "grazie a Dio" e che dopo cinque anni da quei movimenti scopre che anche per lui qualcosa non va. Ma questa volta l'impiegato non si aggrega, pensa di poter vincere il Sistema con la lotta isolata e anarchica delle bombe "…ormai sono in ritardo per gli amici/ per l'odio potrei farcela da solo/ illuminando al tritolo/ chi ha la faccia e mostra solo il viso/ sempre gradevole, sempre impreciso…". Ma poi invece di far saltare il Parlamento sbaglia e distrugge il chiosco dei giornali spargendo inutilmente del sangue innocente "…c'è chi lo vide ridere/ davanti al Parlamento/ aspettando l'esplosione/ che provasse il suo talento,/ c'è chi lo vide piangere/ un torrente di vocali/ vedendo esplodere/ un chiosco di giornali…" e scopre il fallimento della propria individuale rivolta che è servita, come ho già detto, a rafforzare il potere che voleva invece abbattere. Un cammino, questo di De André, sempre rigorosamente fuori dal coro, da ogni classificazione politica o classista, come quello che lo vedrà ancora nel '78 criticare le organizzazioni legate al mondo operaio, cioè il sindacato, quando canterà in Coda di lupo "…capelli corti generale ci parlò all'università/ dei fratelli tute blu che seppellirono le asce/ ma non fumammo con lui non era venuto in pace/ e a un dio fatti il culo non credere mai…". Questo cammino non cambierà mai in De André, nemmeno quando in epoca di rampantismo imperante e edonismi reaganiani e tatcheriani lui parlerà di pellirosse d'America e di pastori della Sardegna, accostandone le simili esistenze con il sentimento che più gli è congeniale e che è il principio fondamentale della sua filosofia: quella solidarietà che significa sentire comune, essere partecipe del dolore degli altri come unica via per il bene e la pace di tutti gli uomini. Tra sardi e pellirosse c'è in comune la difesa della propria diversità, la vita irregolare di chi vive tra montagne o praterie, tra il cielo, i boschi e l'acqua di mari o torrenti. "…sopra ogni cisto da qui al mare c'è un po' dei miei capelli/ sopra ogni sughera il disegno di tutti i miei coltelli/ l'amore delle case l'amore bianco vestito/ io non l'ho mai saputo e non l'ho mai tradito/ Mio padre un falco mia madre un pagliaio stanno sulla collina…". Ma la diversità degli indiani d'America e dei pastori della Sardegna è soffocata nel sangue da un potere che assale e uccide i "diversi", anche se indifesi. Basti leggere alcuni versi dello stesso album, ma della canzone Fiume Sand Kreek:

Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura

Sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura

Fu un generale di vent'anni

Occhi turchini e giacca uguale

Fu un generale di vent'anni

 

C'è un dollaro d'argento sul fondo del Sand Creek.

I nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte

E quella musica distante diventò sempre più forte

Chiusi gli occhi per tre volte

Mi ritrovai ancora li

Chiesi a mio nonno è solo un sogno

Mio nonno disse sì.

A volte i pesci cantano sul fondo del Sand Creek…

Quando poi questo genocidio, diventato ormai genocidio culturale, come aveva preannunciato un "maestro" di De André, Pasolini, si sarà compiuto pienamente nel nichilismo imperante degli anni ottanta, De André imboccherà con maggior forza la "direzione ostinata e contraria" che aveva caratterizzato i suoi personaggi componendo un album interamente in dialetto genovese: Creuza de mä. C’è qui una serie di incontri tra i fonemi dell’idioma genovese e i suoni degli strumenti etnici del bacino del Mediterraneo, da quelli andalusi a quelli macedoni, da quelli turchi a quelli arabi. Compare una serie di personaggi "diversi" e costretti ai bordi della società o alla morte. Quegli stessi personaggi che attraverso il dialetto rivendicano la loro condizione "altra" rispetto alla società omologata degli anni ’80. Sono quasi dei superstiti del genocidio compiuto dal potere e dai mezzi di comunicazione di massa. Basti vedere il caso dell’emarginato sociale costretto a riscuotere i crediti dei potenti, ma dotato di un’umanità tale da donare ciò che può, di suo, a chi non può pagare. È il caso di ‘A pittima:

Cosa ci posso fare

Se non ho le braccia per fare il marinaio

Se in fondo alle braccia non ho le mani del muratore […]

E vado in giro a chiedere i soldi

A chi se li tiene e glieli hanno prestati

E gli domando timidamente […]

Io sono una pittima rispettata

E non andare in giro a raccontare

Che quando la vittima è uno straccione gli do’ del mio.

Oppure il caso di un bambino palestinese, il "diverso", che è ucciso in Libano da soldati, simbolo del potere, che, come in Fiume Sand Creek, attaccano e uccidono persone inermi. È il caso di Sidun:

Il mio bambino

il mio

labbra grasse al sole

di miele di miele […]

spremuto nell’afa umida

dell’estate dell’estate

e ora grumo di sangue orecchie

e denti di latte

e gli occhi dei soldati cani arrabbiati

con la schiuma alla bocca

cacciatori di agnelli […]

e nelle ferite il seme velenoso della deportazione

perché di nostro dalla pianura al modo

non possa più crescere albero né spiga né figlio…

In quest’album il dialetto è rivendicazione di identità e dignità storica oltre che naturalmente diversità. E il tema di Sidun (Sidone), è quello che compare tre volte in De André a sottolineare l’atrocità del potere che attacca, con soldati armati, poveri indifesi. L’abbiamo visto con l’attacco dei soldati americani al campo indiano, con il caso appena citato e lo vedremo nell’ultimo album di De André, con i carri armati che uccidono i rom di Jugoslavia, Polonia e Ungheria.

Dopo sei anni di pausa De André tornerà a scrivere, nel 1990, e lo farà con l’album Le nuvole, che significativamente ripropone il titolo di una delle più celebri commedie di Aristofane. Presenta dei personaggi senza identità che vivono un quotidiano senza futuro in quanto cercano piccoli tornaconti personali e seppelliscono qualsiasi forma di sentire. L’elemento che maggiormente colpisce è la differenza di tono tra il linguaggio di Aristofane e quello di De André. In Aristofane vi sono personaggi grotteschi e linguaggi scurrili:

…E nemmeno questo bravo giovane si sveglia la notte; ma spetezza tutto un groppo con cinque pellicce… (vv. 6-8, trad. R. Cantarella).

…Arrostivo una trippa per i miei e avevo dimenticato di bucarla: e quella a gonfiarsi, e poi d’un tratto crepandosi mi smerdò sugli occhi e mi scottò la faccia… (vv. 409-411, trad. R. Cantarella).

In De André un’ironia amara che ci lascia una rabbia impotente:

…Vanno

vengono

per una vera

mille sono finte

e si mettono lì tra noi e il cielo

per lasciarci soltanto una voglia di pioggia. (De André).

Ai tempi di Aristofane era possibile esprimere in Discorsi le contraddizioni del tempo, era possibile rincorrere l’avventura della conoscenza, anche se senza approdare a nulla, ma ai tempi di De André, alla fine degli anni ’80, non è più possibile. Ci saranno stati gli anni del craxismo, gli anni in cui quella generazione di "ribelli" si sarà ritirata a dirigere pubblicazioni vicine all’integralismo cattolico, gli anni in cui il "pentitismo" di questi "rivoluzionari" si trasformerà in rampatismo. Ci si pentirà di tutto: delle lotte estreme, degli eskimo, delle barricate e dell’amore libero, per indossare doppiopetti di grandi stilisti e frequentare masters alla Bocconi per aspiranti managers. Ma questi sono anche i tempi dell’AIDS e dei suicidi di massa di giovani con i gas di scarico delle auto dei papà. Il ’90, anno di Le nuvole, è il primo dopo la caduta del muro di Berlino, si grida che la storia è finita, il capitalismo ha vinto ed è l’unico potere capace di dare benessere, pace e libertà. Ma per De André un potere illusorio e vano, in quanto non dà ciò che promette, che ha la stessa consistenza delle nuvole, in una allegoria che ritroviamo identica in Aristofane che, per bocca di Socrate, identifica nelle nuvole le nuove divinità.

…Tu vuoi sapere esattamente la vera natura delle cose divine? […]

e venire a colloquio con le Nuvole, che sono le nostre divinità?… (vv. 246-250, trad. R. Cantarella)

De André descrive in quest’album una "pace terrificante"

…La domenica delle salme

nessuno si fece male

tutti a seguire il feretro

del defunto ideale

la domenica delle salme

si sentiva cantare

- quant’è bella giovinezza

non vogliamo più invecchiare - […]

la domenica delle salme

gli addetti alla nostalgia

accompagnarono tra i flauti

il cadavere di Utopia

la domenica delle salme

fu una domenica come tante

il giorno dopo c’erano i segni

di una pace terrificante… (La domenica delle salme).

che è in effetti una confusione senza limiti dove persino un uomo che si innamora di un’asina non desta stupore ma invidie e complicazioni burocratiche e paradossali

…una brutta vecchia nascosta tra le frasche

piangendo e guardando diceva fra sé con le bave alla bocca

- Beata lei

mamma mia che bell’uomo

beata lei

giovane e bruno

beata lei

io muoio da sola […]

ma non riuscirono a sposarsi

l’asina e l’uomo

perché dai documenti risultarono

cugini primi… (Monti di Mola).

Le nuvole è quindi per De André l’album dell’"astio e il malcontento", del rifiuto del capitalismo come motore della storia, dell’autoesclusione. Qui troviamo un pezzo come Ottocento, ricalcato sul genere letterario della laude, nel quale però, rispetto a questa, si opera un rovescio: a recitarla non è una vittima, ma un ricco borghese che canta le proprie meraviglie, cioè i suoi averi (una figlia da maritare, un figlio spregiudicato e una moglie esperta di anticaglie) che può mercificare in un mondo dove si può vendere o comprare qualsiasi cosa. Vi è rappresentata anche una tragedia, quella del figlio che muore annegato nel Naviglio sotto l’esaltante effetto di stupefacenti. Per cantarla De André prenderà spunto da Jacopone da Todi nella laude Pianto della Madonna. Ma mentre in Jacopone vi è bisogno intimo di candore, una travagliata necessità di porsi dinanzi alla Passione con animo semplice

…Figlio bianco e vermiglio,

figlio senza simiglio,

figlio, a chi m’appiglio?

Figlio pur m’hai lassato!…

in De André, anche se si riprende il primo verso citato

…Figlio figlio

povero figlio

eri bello bianco e vermiglio

vi è una recriminazione "…unico sbaglio/ annegato come un coniglio/ per ferirmi, pugnalarmi nell’orgoglio/ a me a me/ che ti trattavo come un figlio" che lascia intravedere come vi sia l’abitudine a stabilire rapporti impostati sul modello del dare-avere che fanno perdere quel rapporto naturale che dovrebbe esserci tra padri e figli e che dovrebbe essere basato sugli affetti.

L’album successivo, Anime salve del 1996, è, invece, l’album della salvezza. Naturalmente a salvarsi sono quei personaggi che De André ha cantato in tutta la sua carriera, quei personaggi che hanno affrontato la vita come un viaggio, una sofferenza, che hanno rifiutato le astuzie, le ambizioni meschine della "maggioranza" e che affronteranno la morte da perdenti e da "poveri cristi". Il primo personaggio del genere nell’ultimo album di De André è Princesa, al secolo il brasiliano Fernando Farias De Albuquerque. Questo è un ragazzo brasiliano che fin da piccolo ha coltivato il sogno di una trasformazione in donna. Dalla campagna dell’infanzia, passata tra amori omosessuali clandestini, si trasferisce in città dove attraverso l’illegale intervento di una bombadeira, modifica il suo corpo con pillole di ormoni femminili e iniezioni di silicone. Da qui in poi la sua vita si svolgerà tra i marciapiedi del Brasile e quelli di Milano e Roma, dove concluderà la sua vita in prigione, a Rebibbia, malata di AIDS. Per De André la vita di Princesa, così sarà chiamata nella sua condizione di trans, è una rappresentazione teatrale più che una vita vera, è il viaggio mai finito di un passaggio, di una trans-formazione da uomo a donna, che vede Princesa bloccata nello stato intermedio che non fa di lei né più un uomo né una donna. Princesa è una creatura sospesa come tra sogno e realtà, tra l’amore per un solo uomo e la prostituzione. È sospesa tra queste condizioni come il lungomare di Bahia, dove lei si prostituiva, lo è tra la terra e il mare. La storia di Princesa è liberamente tratta dall’omonimo romanzo di Fernanda Farias e Maurizio Jannelli. In questo romanzo, nelle primissime pagine è descritta l’infanzia del piccolo Fernando e i giochi innocenti che faceva insieme ai cuginetti, ma che sono già indizio delle sue inclinazioni naturali:

…Io ero la vacca. Genir il toro, Ivanildo il vitello. Camicette e pantaloncini sfilavano via in mezzo al bosco.[…] Invanildo il vitello, […] inumidiva e succhiava sotto la mia pancia. Oh, Ivanildo cerca la mammella! La mia piccola mammella. Inghiottita, mozzicata. Un solletico, un brivido di gioia. […] Invanildo rilanciava: Ehi, c’è la pecora e il montone…(Farias – Jannelli).

De André segue questo filo cronologico e lo sintetizza in versi che esprimono l’infanzia di Fernando, i giochi e le sue inclinazioni:

Sono la pecora sono la vacca

che agli animali si vuol giocare

sono la femmina camicia aperta

piccole tette da succhiare… (De André).

Parlando ancora dei ricordi della fanciullezza sono introdotti nel romanzo alcuni discorsi dei bambini nello scegliere i ruoli e discorsi che Fernando sentiva fare alla mamma con i parenti:

…Giocavo con Josefa il gioco della famigliola. Casetta, pentoline, e i ruoli familiari. Io, la madre. […] Oh, ma tu non sei femmina, tu sei maschio!

Fernandinho è meglio di una figlia femmina, si sveglia presto e mi porta caffè e tapioca dolce a letto… (Farias – Jannelli).

…che Fernandino è come una figlia

mi porta a letto caffè e tapioca

e a ricordargli che è nato maschio

sarà l’istinto sarà la vita… (De André).

Qui è evidenziato come la madre di Fernando ancora non capisce le inclinazioni del figlio, vantando con i parenti le cose care che fa per lei. Mentre in De André vi è la falsa certezza che quelle inclinazioni saranno corrette naturalmente con l’età e la consapevolezza del proprio ruolo di maschio. Intanto il tempo passa e Fernando acquista sì sempre più consapevolezza dei ruoli, ma si riconosce sempre di più in quello femminile, tanto da immaginare un corpo diverso da quello che la natura gli ha assegnato:

…Davanti allo specchio grande, Cìcera mi sorprese e botte. Mi coprivo con la mano per vedermi come Aparecida anche tra le gambe. La mia fantasia, pancia tonda e fessura di bambina… (Farias - Jannelli).

… e io davanti allo specchio grande

mi paro gli occhi con le dita a immaginarmi

tra le gambe una minuscola fica… (De André).

A questo punto sono narrate nel romanzo altre esperienze significative del bambino fino alle prime esperienze con ragazzi più grandi e con adulti, fino a quando, ormai tutti consapevoli di ciò che sta accadendo, e dopo il fallimento del tentativo di arruolarlo, acconsentono di cedere alle sue richieste e mandarlo in città.

…Era il millenovecentottantuno e Adelaide, sorella cara, addolcì Alvaro e piegò Cìcera al mio desiderio. Abbandonare la campagna, vivere in città… (Farias - Jannelli).

…nel dormiveglia della corriera

lascio l’infanzia contadina

corro all’incanto dei desideri

vado a correggere la fortuna… (De André).

Da qui comincia quello che sia fisicamente che metaforicamente è il viaggio di Fernado. Comincia una nuova libertà, quella di poter essere donna, ma che sarà solo un sogno di libertà, un eterno sognare e viaggiare senza mai svegliarsi o approdare a nulla.

…mi diede l’indirizzo di una pensione […] – Faccio tutto: lavo la biancheria, cucino, pulisco le stanze […] organizzo venti pranzi […] vuoi farti crescere i seni? Semplice, vendono gli ormoni in farmacia […] Il culo? Poi ti dirò, c’è Severina a bombadeira, poche iniezioni di silicone[…] dentro il letto, occhi al soffitto, aspetto che ad albeggiare siano due seni di magia. Aspetto […] Ma tu sei maschio […] Vomitai una macchia rossa, mi contorsi dal dolore. Fernando mi resisteva, si rivoltava… (Farias - Jannelli).

…nella cucina della pensione

mescolo i sogni con gli ormoni

ad albeggiare sarà magia

saranno seni miracolosi

perché Fernanda è proprio una figlia

come una figlia vuol far l’amore

ma Fernandino resiste e vomita

e si contorce dal dolore… (De André).

Fernando ha incontrato nella pensione in cui lavora un uomo che le ha consigliato di prendere pastiglie di ormoni femminili e di farsi iniezioni di silicone. Nei passi appena citati abbiamo visto gli effetti delle pillole, ma da qui presto si passa alle iniezioni di silicone:

…novembre millenovecentottantacinque […] Severina, nella sua casa, mi bomba i fianchi con iniezioni di silicone liquido. Senza anestesia.

Dicembre millenovecentottantacinque, il prof. Vinicius, nella sua casa mi applica le protesi di silicone ai seni. Con anestesia. […] sono passati quindici anni ed ora, finalmente, eccomi qui che indosso fianchi esagerati, ampi e lenti come le anse del San Francisco. Mi danno passi al femminile… (Farias - Jannelli).

…e allora il bisturi per seni e fianchi

una vertigine di anestesia

finchè il mio corpo mi rassomigli

sui lungomare di Bahia… (De André).

A questo punto Princesa si sente donna, ma la sua vita è costretta lo stesso sui marciapiede nelle pensioni e nelle auto dove si prostituisce. Tra le sue braccia, le sue gambe e il suo sedere passano centinaia di uomini, dal Brasile a Madrid a Roma, come spettatori davanti ad un palcoscenico, fino ad un avvocato di Milano con il quale Princesa instaura una relazione stabile. Ma questo non è certo il finale lieto, poiché lui non la tratterà mai come una vera moglie e lei non lascerà mai definitivamente il marciapiede. Così se nel romanzo Princesa chiude il racconto con lei in prigione dopo aver accoltellato una donna, De André si ferma al "passeggiare recidivo" durante la sua storia con l’avvocato.

… sorriso tenero di verdefoglia

dai suoi capelli sfilo le dita

quando le macchine puntano i fari

sul palcoscenico della mia vita

dove tra ingorghi di desideri

alle mie natiche un maschio s’appende

nella mia carne tra le mie labbra

un uomo scivola l’altro si arrende

che Fernandino mi è morto in grembo

Fernanda è una bambola di seta

Sono le braci di un’unica stella

Che squilla di luce e di nome Princesa

A un avvocato di Milano

Ora Princesa regale il cuore

E un passeggiare recidivo

Nella penombra di un balcone. (De André).

Questo finale, in perfetta coerenza con la vita e la metamorfosi del protagonista, è una chiara rappresentazione dell’ambivalenza e della duplicità dell’essere.