poeta anarchico di fine millennio
Cosa ha detto, cosa ci ha voluto dire Fabrizio De André in tutti questi trent'anni? E cosa continuano a dire, cosa diranno, forse ancora per molto, i suoi dischi? E' una domanda che ci dobbiamo fare, perché De André non è mai stato, come altri cantautori di talento o meno, un cacciatore di successi miliardari o un facile consolatore di cuori solitari. Di tutti i disomogenei cantautori della scuola genovese, Fabrizio ha trattato sì di sentimenti, ma senza mai indulgere al sentimentalismo o all'intimismo più crepuscolare. All'inizio di carriera, per un miracoloso incrocio di circostanze che ancora fanno riflettere, De André ha sbaragliato per mesi i Morandi, Mina, Battisti e perfino i Beatles in vetta alle classifiche. Ma scrivendo canzoni, anche le prime, fortunatissime La canzone di Marinella e Bocca di rosa, non ha mai pensato alle cifre di vendita. Non è stato mai capace di tanto. Il suo individualismo anarchico, inguaribilmente solitario, malinconico, un po' esistenzialista di borghese a disagio si è sempre preoccupato soprattutto del sociale, del politico, in poche parole più degli altri che di se stesso. Ecco il punto. Fabrizio De André moralista? In certo modo sì, un moralista civile, pubblico, che ha vissuto da solo, ma insieme a noi, i cambiamenti degli ultimi trent'anni fino all'involuzione dei rapporti, alla perdita dell'utopia e all'attuale prevalenza delle 'leggi del branco'. Sempre fuori dal coro, nella sua solitudine di non integrato, De André ci ha parlato anzitutto di libertà, ci ha invitato a pensare con la nostra testa rifiutando dogmi, parole d'ordine e slogan da combattimento.Col passare del tempo, i buoni libri passano più intensamente da casa
sua, diventano fonte d'ispirazione, ma evita come la peste gli sfoggi elevati e
inaccessibili dell'intellettuale borghese. De André riscrive la religione cattolica con
umiltà e senza spocchia dissacratoria, ispirandosi ai vangeli apocrifi con La buona
novella, dove Gesù e Maria sono laicamente più umani che divini. Non può evitare
l'America stimolante degli anni Sessanta-Settanta, ma reinventa l'Antologia di Spoon River
di Edgar Lee Masters a modo suo, trasportando i personaggi nella nostra realtà. Come
aveva già fatto riscrivendo con mano sua Georges Brassens, Leonard Cohen o, a quattro
mani con De Gregori, l'immancabile Bob Dylan. E come azzarda in Hotel Supramonte o
in Fiume Sand Creek, dove i pastori-rapitori sardi si confondono cogli indiani
Sioux. Non esita a passare al dialetto genovese di Creuza de mà, quasi
pasolinianamente e prima che la 'world' diventi merce e moda, per un bisogno intimo di
riappropriazione culturale, oltre che sonoro-espressivo da bahiano dei caruggi genovesi.
Negli ultimi due album Le nuvole e Anime salve, c'è forse l'insegnamento
più attuale di Fabrizio De André, uomo ormai colto di buone letture e saggio
disincantato, uomo di fine millennio senza più utopie come tutti, ma con ancora salda una
responsabilità civile che è sempre più l'imperativo etico. Confessa di volersi
estraneare il più possibile da ogni coinvolgimento emotivo o di schieramento, per portare
una testimonianza libera.
Giacomo Pellicciotti