COME DYLAN MA UN PO' PRIMA

Un giorno, mentre andavo all'Hotel Savoy di Nervi a salutare Hemingway, in un chiosco lì accanto, a un jukebox, stavano trasmettendo La guerra di Piero. Naturalmente sono rimasta folgorata dal miracolo di quella voce, dalla grazia della musica, e soprattutto da quelle parole così legate ai sogni di alcuni di noi di far finire le guerre.

Stavo curando un'antologia pacifista per Feltrinelli e ho scritto alla casa produttrice del disco per avere il permesso di includere quei versi magici fra quelli dei miei poeti americani; ma non ho avuto risposta.

Fabrizio mi ha detto molto più tardi che non gli avevano mai fatto vedere la lettera, come è accaduto poi con Bob Dylan, che anni dopo è stato il Fabrizio americano.

Qualche mese dopo mi ha cercata il suo road manager Danè: mi ha detto che Fabrizio voleva fare un disco ispirato all'Antologia di Spoon River; potevo incontrarlo senza presenze indiscrete? Sapevo che in quel periodo si sottraeva a qualsiasi incontro e la sera che è venuto con Danè lì da me in via Cappuccio tremavo dall'emozione e dall'orgoglio. Era bellissimo, timido come sanno esserlo gli aristocratici, elegante come un ragazzo abituato ad essere servito a tavola da un cameriere in guanti bianchi, ma anche ansioso come un sognatore che in incognito cantava le sue canzoni contestatarie in una cantina. Mi ha regalato una lunga serata indimenticabile parlando del «mio» Spoon River; aveva capito tutto, mi ha aiutato a capire qualcosa che non avevo ancora capito io. Quando mi ha salutato l'ho accompagnato all'ascensore, e lì, vicino alla porta, ho visto la sua chitarra: non aveva voluto portarla in casa. Ah, Fabrizio.

Poi Danè ha voluto che facessi la copertina del disco. Ho inventato un'intervista ad Edgar Lee Masters servendomi della sua autobiografia, ma non potevo inventare un'intervista a Fabrizio. Come due congiurati, con Danè abbiano combinato di raggiungerlo a Roma; lì Danè mi avrebbe fatto entrare nel residence in un momento in cui Fabrizio riposasse al buio, e da una poltrona lo avrei potuto salutare. Così è stato, ma sotto il letto ero riuscita ad infilare un piccolo registratore giapponese non ancora noto in Italia; e Fabrizio, rassicurato dal buio e dal silenzio, ha ricominciato a parlare del nostro disco, i nostri dubbi, il nostro entusiasmo: chissà se mi è riuscito di far rivivere le sue parole su quella copertina.

Quando mi ha fatto andare in sala di registrazione mi sono accorta che i suoi versi avevano di molto migliorato quelli di Masters: li avevano arricchiti di una speranza, di un amore, di una fiducia nella bellezza del mondo che Masters aveva perduto nella sua vita amara.

Ma di Masters non abbiamo mai più parlato, le molte volte che ho avuto il privilegio di incontrarlo, quando mi ha fatto l'onore di venire a Conegliano per il mio compleanno, quando ha sopportato la mia indignazione perché aveva fatto credere di disprezzare le canzoni della contestazione, quando mi ha dato la gioia di cantarne una per me in uno stadio, quando ho passato una settimana nella sua casa in Sardegna, quando ho visitato la sua tenuta di agricoltura che sembra uscita da un libro di favole, quando ho scherzato col panettone di Natale nella sua casa a Milano tenuta come un gioiello da Dori, la sua dolce, generosa compagna che lo ha assistito si può dire con eroica dedizione fino all'ultimo momento.

Ora io so dire solo che non è vero che è morto, che vivrà per sempre nei nostri cuori e nella realtà magica della poesia. Vivrà per sempre negli immensi spazi profumati dell'eternità dove si raccolgono gli inermi eroi della pace e dell'amore.

           FERNANDA PIVANO

(Un grazie a Federico Campomori, amico della mailing, gentile fornitore di questo articolo)