«Era un divoratore di libri e viveva di notte. Le sue melodie, create per valorizzare le parole»

Vecchioni: «De Andrè, il Pirandello della canzone»

Si frequentavano, si stimavano anche se non hanno mai scritto una canzone insieme Fabrizio De Andrè e Roberto Vecchioni. Il quale parla di ciò che il cantautore genovese ha rappresentato per la cultura italiana. «La sua è stata una rivoluzione culturale. E' vero: è partito dai francesi. ma poi puntò quasi subito sul gusto della favola, distanziandosi dai francesi, più attaccati alla realtà, alla vita. La vita, invece, Fabrizio la nascose sotto la mano come un prestigiatore».

«Ma la vera rivoluzione è che De Andrè va al di là della poesia dei Luzi e dei Zanzotto. Mi spiego meglio: la sua operazione nei confronti della poesia èun po' quella che fa il teatro nei confronti dell'epica. L'epica proponeva una narrazione che veniva dall'alto, il teatro instaura un rapporto a due fra chi recita e chi ascolta. E il pubblico diventa protagonista. Con lui nasce la prima canzone partecipativa a livello intellettuale che io conosco. Paoli e Tenco come BreI, Brassens e Becaud rivoluzionarono la canzone mettendoci la vita. Lui andò più in là portandola verso la favola, il paradigma, sganciandosi completamente dall'attimo presente». «Quanto alla costruzione della canzone sì tratta di qualcosa che parte dall'intuizione. Poi viene pensata elaborata, cesellata da una intelligenza senza pari nel campo della composizione. Io credo - continua Vecchioni - che Fabrizio sia uno dei grandi del Novecento, che si affianca a Luigi Pirandello per molti aspetti. Cosa odiava Pirandello? La forma, ovvero la finzione di noi che siamo obbligati a consegnare alla società. Ma Pirandello ammanta la realtà di tragedia, De Andrè di favola».

«Lo scorso anno Paolo Villaggio, solo con Fabrizio su una scogliera, gli chiese: "Ma tu ti senti arrivato?". De Andrè rispose:" Io non mi sento un musicista, mi sento un poeta". Questo è il punto: lui era l'unico poeta della canzone d'autore. Gli altri, me compreso, con l'eccezione forse di Guccini, sono bravi, non poeti. E i suoi testi sono gli unici che reggono anche senza musica».

Il linguaggio di De Andrè «Non è assolutamente per tutti. il suo era un elitarismo culturale. Aveva il fisico e la testa del poeta. Non aveva bisogno di mettersi in una torre d'avorio: in quella torre ci era nato». E questa passione per la notte? Per lui l'alba era un'offesa perché lo costringeva a ricollegarsi alla realtà rispetto al mondo dei personaggi che elaborava. In sostanza l'alba lo richiamava a cose che non aveva nessuna voglia di fare. Ha avuto la grande fortuna di avere intorno gente che lo capiva». E i temi? «Beh, accanto a considerazioni ovvie che posso fare come ricordare la sua passione per gli emarginati, gli indiani e altri temi coerenti con le sue convinzioni di anarchico, non ha scritto grandi canzoni d'amore. La sua è piuttosto una ricerca precisa e romantica della persona vera: la vera Princesa (un transessuale), la vera Franziska (moglie di un latitante sardo costretta a un voto di castità). Parlavamo delle situazioni creative in cui si immergeva. Lui dava un tale corpo ai suoi personaggi da sentirti come assolutamente veri. Ed ecco perché l'alba che arrivava era qualcosa di mediocre. Nella stanza chiusa, su quel lettone, costruiva quello che voleva. L'alba rischiava di dissolvere quel suo universo, quelle donne, quei malandrini, quegli eroi che non sono mai esistiti e non esisteranno mai al di fuori della sua realistica fantasia».

«Fabrizio era un divoratore di libri. Si innamorava di alcune frasi che leggeva. Poi le cambiava per metafora o per traslazione, alla fine, per far passare quella metafora, ci costruiva sopra una canzone». «E stato scoppiettante fin dall'inizio - continua Vecchioni -- "La guerra di Piero", "La ballata Michè" sono tutte situazioni fuori dal normale, sempre su tematiche diverse. Non ha mai puntato su situazioni personali nemmeno quando era logico; in "Hotel Supramonte" i cieli in fiamme sono dominanti rispetto alla sua sofferenza personale di rapito». E la melodia ? «Ricca o povera che fosse sempre creata per valorizzare le parole».

    Roberto Vecchioni