Fabrizio De Andrè sembra andare e venire e poi tornare...come le nuvole.
Sembra sparito, inghiottito, dissolto tra i crepacci della Gallura, mentre segue le orme di una mucca o l'odore di un cespuglio.
Una presenza che per anni è rimasta soltanto nell'immaginario collettivo e poi è ricomparso. E ogni volta vien voglia di chiedergli: "Perchè l'hai fatto? Perchè sei riuscito dal crepaccio a cantare speranze e maledizioni che sembravano sopite per sempre?"
E c'è un senso di rassegnazione, di cosmica ineluttabilità nel suo risponderti: "Non faccio nulla. Sono come una nuvola che si riempie di pioggia e quando è gonfia deve scoppiare e spandere la sua acqua ai quattro venti..."
Quasi sessant'anni ormai, una chitarra, una città come Genova, di poeti e navigatori, una bottiglia di whisky, anzi una fila, un sentiero per amico. Poi, come in tutte le storie, un grande padre che muore. Gli chiese solo, in punto di morte: "Figliolo, buon figliolo, fammi una promessa. Non ti ho mai chiesto nulla"
"Certo, padre mio, cosa vuoi dal tuo figliolo?"
"Promettimi che smetterai di bere, bambino mio, promettilo."
"Ma padre, o belin, non mi puoi fare uno scherzo del genere proprio sul punto di morte, e con che cosa brinderò a questa tua dipartita?"
Ma le promesse sono promesse, almeno nel regno degli uomini e così Fabrizio ha smesso di bere. Altre ombre si agitano nei suoi occhi di mare in tempesta, nomi di gente come si trovano solo nei racconti di Pavese, un eterno giaccone blu, una barba come sempre lunga, un letto sempre sfatto ma cosparso di poesia e frammenti di vita e sapere come una bibblioteca alessandrina. I capelli sempre spettinati, un volto che molta gente nemmeno conosce, ma un volto sempre incazzato, un sorriso sempre nascosto da cose impossibili a dire, perchè tutto è già stato cantato. Un'anarchia portata sempre a bandiera, un rapimento e tre mesi vissuti all'addiaccio con gli occhi bendati..."Ti chiudono gli occhi e sei costretto a guardare dentro di te. Ah gli occhi... se non mi fossi messo a cantare , sarei stato un pittore. Anche perchè mi piace considerare una canzone simile a un dipinto, dove alcuni elementi stanno in primo piano, altri in secondo piano, altri svolgono la funzione di fondale. Così la voce, il tema e la melodia potrebbero assumere le sembianze figurative della donna con il bambino in La Tempesta di Giorgione. Laddove l'arrangiamento, nei suoi piani strumentali, potrebbe rappresentare i vari elementi del paesaggio...
Rigore e ambiguità, mani lunghe e affusolate da nobile, con vene da contadino, voce da portuale con espressioni da nouveau philosophe, tenerezza e insofferenza, da Porta a Penna alcuni dei versi più belli di questa generazione, una generazione di amanti e di sfigati, di ribelli e di pantofolai, di artisti col desiderio di anonimato e di anonimi col desiderio di essere segno e simbolo, di idealisti pronti a rinunciare a tutto e di rivoluzionari non disposti a rinunciare a niente...
"Io passo la maggior parte della mia vita in solitudine. Non mi capita spesso di essere coinvolto da questo tipo di sentimenti. Mi capita più sovente di essere emozionato, o di provare meraviglia e stupore come un bambino. Oppure, quando scende la notte dell'anima cado in uno stato di atarassia, di totale assenza di partecipazione emotiva".
Poche amicizie, ma come si suol dire sincere, voglia di avventura e nido di famiglia, grande vecchio ed eterno bambino, passare dalle favole all'analisi e ritorno senza soluzione di continuità. Passare dal futuro attraverso il tempo perduto, quando le cose avevano un nome, nascevano e morivano con te e nessuno poteva portartele via. Il pudore estremo dei propri sentimenti, un amore per Dori che va oltre la parola e che nessuna parola d'amore potrebbe mai descrivere o contenere.
"Sarei forse morto: di amarezza, di alcol, di autodistruzione, di pessimismo, di dolore. Ma Dori è una fonte perenne di creatività, ottimismo, positività e confronto con la vita. L'ho sposata, sì, dopo quasi vent'anni, per motivi giuridici, perche la legge italiana non equipara ancora completamente i diritti della convivente a quelli delle mogli. Ma c'eravamo già sposati sull'addiaccio del Supramonte. Una comunione ad occhi chiusi. Vivere fianco a fianco per ventiquattro ore al giorno. Che stupenda metafora! Nessuno conosce l'altro come ci conosciamo noi."
Parole strappate. Parole monche, trattenute. "La mia risposta a qualsiasi domanda sarebbe in ogni caso il frutto di un interesse simulato." Però abbiamo continuato a parlare, con lunghe parole inutili, davanti a un fuoco e a una bottiglia di vino rosso di Sardegna fatto a quattro mani con Filippo, molto più di un nome tutelare, un fratello di pietra, di sangue, carne e coscienza. Fare il vino per lui, per gli amici, per la gioia di vederli bere e schioccare le labbra, che lui Fabrizio non schiocca più. Ricordando la promessa. Abbiamo parlato davanti al mare e alla nostra impotenza , davanti a contadini con occhi trasparenti che ridevano di noi, davanti alla pioggia e davanti al camino, seduti sull'erba, sulla sabbia e sulle nostre sterili convinzioni. Abbiamo parlato fingendo di non conoscerci, perchè non c'era niente da dire e, se avessimo potuto dirlo, la deontologia professionale ci avrebbe costretto a darci del lei. Ma ve lo immaginate? Signor De Andrè, perchè lei ora canta in dialetto?
"Intanto non è dialetto, casomai un idioma. In ogni caso i dialetti assurgono a dignità di lingua e le lingue decadono a indegnità di dialetto, tra parentesi, solo per motivi politici. Le lingue che parliamo sono i dialetti dell'Impero. Il genovese o il napoletano hanno una tale quantità di vocaboli, di costruzioni linguistiche, possiedono delle sonorità così belle da farmeli preferire a qualsiasi lingua imperiale. Si sente sempre parlare di cultura mediterranea, da contrapporre in qualche maniera al modo di fare musica e di cantare dell'Impero...Ne sento parlare da vent'anni, e non ho ancora sentito un disco che rappresenti o che esprima questo suono, questa policromia mediterranea".
Ed eccomi qui a pungolarlo, a provocarlo, a estorcergli il "frutto di un interesse dissimulato". Ma è finalmente vero che quanto più un artista si esprime, meno gli resta da dire, o almeno a parole. O, detto altrimenti, se uno ha dato tutto nella sua opera, non gli rimane più energia per parlare, spiegare, commentare o giustificare. Diffido di coloro che parlano abbondantemente delle loro opere, che spiegano, che ti aiutano a trovare gli (imprecisi) significati, e infatti oltre al bicchiere di vino rosso e alle barbe lunghe non c'era niente da dire, e così ecco la provocazione per rompere il guscio di silenzio.
"Io intendo più semplicemente la musica, il canto, come espressione dei propri sentimenti: della propria gioia, del proprio dolore...A volte può essere addirittura un tentativo di autoanalisi. Siccome tutti gli individui in fondo sono fatti delle stesse cose, analizzando te stesso offri anche una via agli altri per conoscersi, per scoprirsi."
Ma mi dica ancora, signor De Andrè, mi parli di questa sua scelta di solitudine, e come soli compagni il vento e le pietre, la mano rugosa di Filippo. Mi dica cosa cerca tra gli astri e tra i segreti della sua fascinazione per l'astrologia; "ah, scienza metafisica", lei dice, "o metascienza", e anche che "parlarne è involgarirla, perchè tutto ciò che è intimo nel tuo cuore non deve diventare argomento di conversazione..." Come la capisco, signor mio, e guardi che professione mi sono scelto! Pertanto le farò un'ultima domanda:
"Di che cosa ha paura?"
"La cosa che mi spaventa di più è rincoglionire. Il fatto di non essere più cosciente di me stesso, degli accadimenti che mi circondano. Ma anche di impoverirmi sentimentalmente, nelle emozioni. Mi spaventa questa disidratazione del cuore, di cui tutti sono vittima. Da questo punto di vista mi spaventa anche una vecchiaia lucida, cinica, priva di sentimenti... perchè ho notato che in molte persone, con l'andare degli anni, si sviluppa una tendenza ad affezionarsi alle cose, e a disaffezionarsi alle persone"
Ma, come dice l'adagio, finchè c'è Dori, c'è speranza. Di più: Dori è il massimo dell'immaginario possibile per un uomo mediterraneo: una madre col volto da bambina, non solo, una bambina con un corpo di donna, e una donna con un corpo da odalisca... Credo proprio che ci sia almeno una speranza.
Carlo Silvestro