La ballata di Fabrizio
Aveva un bellissimo viso da signore, ancora ben intuibile dietro
gli sfregi lividi dell'alcol, come in un ritratto di Bacon. Aveva una bellissima voce da
uomo, profonda e fedele alle parole che pronunciava, levigata negli anni da un fiume di
sigarette. E aveva un bellissimo cuore, il cuore dei grandi poeti, aperto al cielo, alle
nuvole, alle donne che amano, ai soldati che muoiono, ai potenti che comprano, ai
delinquenti che pagano.
"Ma come, non conosci Fabrizio?". Era il compagno di banco, lo stesso che ti
aveva fatto leggere Masters o Majakowski, a imprestarti i suoi dischi. Erano canzoni
sconosciute alle hit-parade, alla televisione, alla radio. Canzoni carsiche, liriche da
ricopiare sui fogli di quaderno, melodie di contrabbando ripetute dalle chitarre scordate
degli chansonniers di liceo. Parlavano di prostitute, di disertori, di guerra, di sesso,
di morte. Le si ascoltava per pomeriggi interi, in quelle cerchie fervide e infatuate di
adolescenti che s'infiammano alle prime poesie, come nell'Attimo fuggente di Peter
Weir.
Noi ragazzi degli anni Sessanta ci innamorammo dei suoi eroi malvisti, derelitti,
risplendenti di solitudine. E ridevamo dei suoi grotteschi bersagli, re sudicioni,
borghesucci ipocriti, giudici spietati, beghine pavide. Quella stessa potente, preziosa
materia - la percezione che il mondo è ingiusto e ottuso - che la politica, di lì a
poco, avrebbe bruciato come carta straccia, nelle canzoni di Fabrizio faceva una luce
incantevole, la mite e durevole luce dell'arte. E la ferita emotiva che quelle parole,
quelle ballate aprivano nell'animo, corrispondeva all'intuizione che l'arte e la poesia
fossero la più radicale delle rivolte.
Quell'intuizione, purtroppo, non è irrimediabile. Si cicatrizza con gli anni, ci si passa
poi sopra, crescendo, quando l'attimo fuggente svanisce. Ma malamente, così come mi viene
dal cuore dicendo addio a Fabrizio, vorrei dire che se la mia generazione avesse creduto
fino in fondo alle canzoni di De André (e per li rami a Brel, Brassens, Vian) piuttosto
che a certi severi catechismi, quanto dolore e quanta bruttezza avremmo evitato... Come ci
commuoveva, nella Guerra di Piero, la quartina nella quale il soldato sceglieva di
morire piuttosto che uccidere: "E se gli sparo in fronte o nel cuore/ soltanto il
tempo avrà per morire/ ma il tempo a me resterà per vedere/ vedere gli occhi di un uomo
che muore". Ma quanto poco durò, ahimè, il mito adolescenziale della diserzione,
incalzato dal mito virile della militanza...
Non che Fabrizio e le sue canzoni fossero, nel raccontare le cose del mondo, incruente. Il
suo pensiero era animoso, duro fino all'acredine nella rappresentazione del potere,
fortemente incline all'invettiva, proprio come i suoi primi ispiratori, l'antico Villon e
il moderno Brassens. E certamente nessuno dei cantautori italiani ha saputo cantare così
civilmente l'odio per l'inciviltà dei tempi. Anarchicamente, detestava le maggioranze e
la loro capacità di fagocitare i comportamenti, di anestetizzare i sentimenti. Ma questa
lucida cognizione della ferocia dei vincitori, piuttosto che ispirargli rabbia e
impotenza, accendeva la sua potenza narrativa, e dilatava la sua naturale dolcezza.
Dalle puttane, dai carcerati e dagli emarginati cantati (e cullati) nelle sue prime
ballate, passò agli indiani d'America, agli umili morti di provincia di Spoon River, ai
poveri cristi dei Vangeli apocrifi, agli anarchici più esplosi che esplosivi, ai barboni
bruciati da Ludwig, ai transessuali, ai lavavetri, a chiunque incarnasse la poesia della
sconfitta. Perfino del suo rapimento, patito insieme alla moglie Dori Ghezzi, seppe
cantare (in Hotel Supramonte) a partire dalla percezione della debolezza dei suoi
aguzzini. Con una sensibilità che qualcuno, grossolanamente, giudicò ideologica, mentre
era, allora come sempre, solo e soltanto poetica.
Nato ricco, e da una famiglia importante, fin da ragazzo aveva scelto la Genova
d'angiporto, quella dei bordelli, dei pittori, dei tiratardi. E dei cantautori.
Conoscendolo, era facile intuire che la frattura giovanile con le sue origini familiari
fosse di natura prima esistenziale che politica. La sua pigrizia (Oblomov era uno dei suoi
eroi letterari), l'intelligenza sorniona, il dispregio per l'efficienza, per
l'iperproduttività, per il mito della "professionalità", lo allontanavano da
ogni responsabilità di censo, e lo spingevano a praticare la sua arte secondo i tipici
umori del dilettante (amateur, dicono i francesi). Uno dei più autentici, spontanei
traditori di classe che si sia mai visto sotto il sole.
Detestava la sala d'incisione e ancora più i concerti, ai quali si sottoponeva come a
un'interrogazione scolastica sgradita, e solo dopo essersi circondato di musicisti
d'eccellenza, come per condividere una pena con amici fidati. Televisione neanche a
parlarne, e chissà come potranno organizzare la celebrazione, sulle varie reti, con le
poche reliquie disponibili.
Si sentiva profondamente mediterraneo, quasi un arabo di Genova, e nel suo capolavoro (Creuza
de ma', in lingua genovese) era finalmente riuscito ad approdare, insieme a Mauro
Pagani, a un mondo sonoro gravido di spazio, di lentezza, di lontananza dalla frenesia
malata, ridicola, spietata del nostro tempo. Per difendersene viveva sei mesi all' anno in
Sardegna, e gli altri sei confinato all'ultimo piano di un palazzone milanese, in una casa
bella e quasi lunare, a distanza di sicurezza dal traffico e dalla confusione.
Ha scritto poco relativamente ai ritmi discografici. Tantissimo in rapporto alla propria
indole. La qualità, rarefatta nel tempo (un disco ogni lustro, ultimamente), è sempre
rimasta altissima, e forse, cosa rara in ogni genere d'artista, ha raggiunto i suoi
vertici proprio con le ultime opere, il già citato Creuza de ma, Le nuvole
e Anime salve. L'ascolto di quelle ballate, di quei versi, soprattutto di quella
voce così profonda e tersa, è la grande compagnia che ci ha lasciato. È pochissimo se
raffrontato al vuoto che resta laddove fino a ieri si sedeva, ragionava, parlava e cantava
questo nostro grande, meraviglioso fratello maggiore. E tantissimo se pensiamo a quanto
lontano potrà arrivare la sua voce di lunga durata, lenta, veritiera, che ci darà
conforto e vacanza quando non riusciremo più a sopportare il suono frenetico del tempo.
Che la sua anima riposi in Supramonte, o in via del Campo, o a Spoon River, o nel letto
del Sand Creek, dovunque una sua canzone abbia restituito bellezza e dignità agli uomini.
Michele Serra