LA GUERRA

…fu un generale di vent 'anni

occhi turchini e giacca uguale

fu un generale di vent'anni

figlio di un temporale...

"Fiume Sand Creek", da L'indiano

 

 

La guerra? Ti tiene seduto su uno sgabello senza schienale, inchiodato a una paura, nulla a proteggerti le spalle. Lo schienale era suo padre, quel padre bello, audace, un pò burbero che appariva ogni tanto, quasi sempre di notte, li abbracciava rapido e rispariva, come deglutito dall'alba.

La campagna di Asti aveva mille voci, il vento, gli uccelli, un poema continuo di interiezioni e fruscii. E nessuna di quelle voci era in grado di dire dove fosse lui, che i fascisti braccavano e del quale loro avrebbero avuto voglia e bisogno.

Era d'estate, ripensai a quelle lunghe attese di campagna, giorni e giorni prima di risentire, per pochi attimi, la sua voce. Pensai: il problema non è che gli volevo bene, perché questo non finisce. Il problema è che lui ne voleva a me."

Fin da quei tempi di Revignano d'Asti, c'era la guerra e lui, Fabrizio, era un bambino, "mia madre mi disse - cantò anni dopo - non devi giocare / con gli zingari nel bosco". Ma lui non ne avrebbe mai avuto paura, degli zingari. Aveva sempre saputo che hanno facce di cuoio e argilla, sono aquile buone, alla ricerca di un nido che ogni volta si sposta un po' più in là, oltre il filo di seta dell'orizzonte: come i marinai.

Altre erano le sue paure di implume, quando la sua famiglia era rifugiata nella campagna astigiana e c'era la guerra. Gli spari che ululavano lontano, o così vicini da indovinarne il bruciore e l'afrore. L'inquietudine di boschi e di monti senza zingari, dove i fascisti braccavano i partigiani e i partigiani braccavano i fascisti, e chissà chi avrebbe vinto quella truce mosca cieca - e d'altronde che ne sapeva allora, lui bambino, di chi avesse ragione. E la sorte di quel padre che appariva e dispariva ogni tanto, come attraverso i buchi di un muro squarciato.

"Presumibilmente era, la mia, una paura senza moventi - ero troppo piccolo, per scoprirli - quasi metafisica, fatta di sensazioni dure e di voci di dentro. E d'altronde la campagna, se la ami, ha benedizioni e anche insidie, ma incolpevoli. Non per niente ci sarei tornato ogni estate, per una fila interminabile di estati, a dormire nella stalla, a giocare con i vitelli, a correre tra i boschi e i prati delle mie paure bambine. E a trentacinque anni mi sarei trasferito in Gallura non per fuggire ma per ritrovarla, la campagna. L'erba, il fieno, la terra, quel certo tipo di luna molto meno diafano, molto più carnale di quella che ci appare in città, tra lo smog di Milano. E gli stronzi di vacca che diventano legno, sotto il sole. E il dialetto, che rende più saporite anche le bestemmie e più limpide."

E rammentando, rivide un possibile scenario meridiano, nella gran casa di Revignano d'Asti, dalla cucina arrivano i borborigmi della pignatta sul fuoco, da fuori il cianciare stridulo delle galline e i miagolii e gli abbai e i belati. Nonna Margherita sferruzza, un orecchio al borlacco della pentola e l'altro ai nipoti, Mauro compita da scolaro modello sul suo quaderno a righe, Fabrizio, i piedi nudi sul pavimento di mattoni - o ritto su una sedia? - dirige chissà che orchestra la cui voce arriva dalla radio accesa.

Oppure un altro scenario, vespertino, per la famiglia di sfollati. Mamma Luisa sferruzza e tende l'orecchio verso la porta, accomoda la pelliccia che il mezzadro le ha confezionato con le pelli delle puzzole che, con le gazze ladre, si rifugiano nella stalla per sfuggire al freddo. Mauro traccia segni già sicuri sul suo quaderno, lei si chiede dove sarà mai Fabrizio, è uscito di buon'ora e non si è più fatto vedere, sarà corso nei campi dai suoi amici contadini, Sarà a mangiar polenta con loro in qualche cortile o in qualche stalla a discutere del parto della grossa mucca, la Bionda, o a infastidire il vitellino neonato, o al pascolo col rischio di farsi prendere a cornate, o su e giù in bicicletta per le strade bianche, a riempirsi di polvere.

La signora Luisa sospira e intanto pesa le due angosce: il marito, il professore antifascista costretto alla macchia, che da giorni e giorni non dà notizie di sé, il figlio più piccolo, quattro anni, nato quando sul giradischi suonava, quasi un presagio, il "Valzer campestre" di Marinuzzi, e ora sempre nei campi, a piedi scalzi, giornate intere, come un piccolo contadino.

E le due apprensioni si intrecciano finché Fabrizio ritorna ed inevitabile che l'inquietudine materna si sfoghi in un rimbrotto liberatorio. Sono ore che ti aspettiamo, dov'eri finito e poi guardali, sudicio e scarmigliato come uno zingaro.

E Faber appena tornato, con tra i denti mille cose da raccontare, ascolta la ramanzina con occhi cupi, sfreccia nella camera da letto, agguanta una valigetta di legno rosa e vi ricovera i soldatini. E scappa fuori, quattro anni, pronto ad affrontare i trabocchetti del mondo ma in libertà, altro che zingari nel bosco, "il bosco era scuro e l'erba già alta / dite a mia madre che non tornerò".

Ma fuori sta calando il buio, va bene che, dirà già adulto, "quand'ero piccolo mi innamoravo di tutto / correvo dietro ai cani", ma come ringhiano i cani randagi, e se fossero lupi, tra i sassi notturni, e come potrebbero difenderlo trenta soldatini di stagno con i loro fucilini e i loro spadini lunghi un centimetro. Rieccolo dunque tornare, mogio mogio, finirà pure questa guerra, mormora la signora Luisa come pregasse, torneremo a casa - ma mà, non è questa la nostra casa?... "C'è una donna che semina il grano / volta la carta si vede il villano / il villano che zappa la terra / volta la carta viene la guerra... "