IL SESSO

me veggiu demua

'nte l'umido duçe

de l'ame du teu arveà

ma seu Jamina...

"Jamin-a", da Creuza de ma

 

Il fattore, Filippo, toglie dal forno i funghi, adagiati su un letto di foglie di vite, versa il cannonau nei bicchieri e l'acqua in quello di De André, risponde al telefono che squilla. "No, il signor Fabrizio sta dormendo." E davanti al suo piatto, Fabrizio racconta.

"Avevo dodici anni e, come tutti i figli di papà, frequentavo le medie all'Arecco, dai gesuiti dove studiava tutta la Genova bene. Avevamo un padre spirituale, si chiamava B.P., che ogni mattina ci raccontava delle musse* di dottrina, insomma ci spiritualizzava. Io allora avevo i pantaloni corti, data l'età. Una mattina lui mi chiama, comincia a parlarmi della Madonna e intanto mi infila una mano su per i pantaloncini. Io che da sei anni bazzicavo via Piave e via Trieste, a tirarmi i sassi con gli amici, queste cose le sapevo. E così ho capito subito, mi sono divincolato e sono scappato per i corridoi, urlando: "Il padre B.P. è un buliccio.**

Dopo sette giorni arriva a mio padre una raccomandata che lo informa della mia espulsione. Mio padre mi chiede che cos'è questa storia, io gliela racconto e lui va dal provveditore agli studi e fa un casino. Morale: il prete viene cacciato dall'istituto.

Quell’estate andiamo in vacanza in alta Savoia, e conosco una mese di venticinque anni, si chiama Georgette. Io, si vede, le piaccio, così lei mi invita in camera sua con la scusa di farmi vedere un album di fotografie, poi me lo prende e se lo mette dentro. È stata la mia prima volta, e avevo appena dodici anni. A undici anni avevo cominciato a masturbarmi leggendo 'Pantera bionda’ un fumetto la cui protagonista vestiva di pelle di leopardo e aveva sempre le cosce fuori.

Insomma sono stato instradato al sesso nel modo giusto, perché vivendo per strada - merito dei miei, che me lo hanno permesso - ho imparato a capire tutto alla svelta e in maniera normale. Chissà quanti miei coetanei, invece, hanno conosciuto il sesso nei gabinetti dei collegi di lusso, con i compagni di scuola o con i preti.

A tredici, quattordici anni, ai baracconi, ho conosciuto un giro ragazzine, si chiamavano Tina, Alda, Marilina, Gianna. Erano figlie di puttana, nel senso che le loro madri facevano quel mestiere. C'erano delle feste, nei caruggi, io ci andavo con i miei amici e quegli incontri finivano regolarmente in gloria. Insomma, a dodici anni conoscevo la vita molto più di mio fratello che aveva quattro anni più di me. Solo che a scuola lui prendeva nove, e io tre.

E d'altronde quando cominci a diventare adolescente, in una città e Genova, o scegli un certo tipo di società, o ne scegli un'altra Un ragazzo che abbia una sua personalità, una certa forza di volontà e che senta esplodergli dentro la primavera, la seconda volta che va al ballo delle diciottenni finisce che dà delle grandi cappellate nei muri. Appena conosci l'altra società, quella della Tina, dell'Alda e delle altre come loro, che sono figlie di troie e in cinto di diventarlo a loro volta, trovi della gente che al primo impatto ti dà molto di più, rispetto alle altre che se la portano dietro come se fosse uno smeraldo, in vista delle nozze. Queste sono più aperte e più generose, sicché te ne innamori, ne sei affascinato: la scelta è obbligata, a meno che non ti abbiano già lobotomizzato.

Così ho scoperto questo mondo che ho amato, forse anche a causa di qualche gene prenatale. E’ un fatto genetico e, se provare attenzione per le sofferenze altrui da una parte può essere una scelta dall'altra c'è una spinta che è al di là delle scelte, probabilmente deriva da un fatto ereditario.

E perciò, anche se per motivi non del tutto spirituali, andavo sempre più volentieri verso quell'altro mondo. Avevo amici come Rino Oxilia, figlio di una fruttivendola di Molassana, che aveva una giardinetta che puzzava di sedano da non poterci stare dentro. Tutte le domeniche andavamo in queste balere di terz'ordine, la Primavera, la Castagna, quella di piazza Tommaseo. 'Balla, signorina?' 'No, ho le mie cose'. Oppure portavamo le nostre amiche dei caruggi al mare, o in campagna. O andavamo alle loro feste, che, come ho detto, non erano il ballo delle diciottenni. Qualche volta andavamo ai bagni San Nazzaro, comunali, dove, quando mio padre era vicesindaco, la mia famiglia aveva la cabina gratis, quella con il trampolino e gli oblò. E a mezzogiorno ci mettevamo col culo fuori degli oblò, che ci vedeva tutta la spiaggia: sicché, dopo una settimana, minacciarono di metterci in galera.

Quando tornavo tra i ragazzi della mia classe sociale, mi mettevo in un angolo e mi rompevo i coglioni. Non me ne fregava niente di fare gli occhi dolci a quel tipo di ragazze, e di girare con loro mano nella mano. Forse è in quelle occasioni che ho imparato a bere whisky, giusto per fare qualcosa.

A sedici anni fui anche processato. Ero in vacanza con i miei a Bardonecchia, mi ero innamorato di Anna T., una ragazzina, e avevamo deciso di sposarci. Così, all'una di notte, andammo davanti alla chiesa, tirai giù la porta a spallate e, una volta entrati, ci mettemmo a fare l'amore su una panca. Richiamata dal rumore

arrivò gente, fui processato per direttissima - violazione di luogo sacro, effrazione, atti osceni in luogo sacro - e alla prima e unica udienza il pubblico ministero mi definì un teddy-boy. Me la cavai solo perché mio padre, probabilmente pagandolo, convinse il parroco a ritirare la denuncia.

Più avanti mi misi con un'altra Anna, una battona di giro che aveva le gambe pelose come un gorilla ma un viso molto bello. E poi era generosa e innamorata. Lo ero anch'io. Lei batteva in via Settembre, dov'era anche la Borsa d'Arlecchino, dove io suonavo. Nel punto opposto della strada, all'angolo con via Fiume, c'era il bar Olimpia dove lei, nell'intervallo tra una marchetta e l'altra andava a farsi un goccetto. Quando io avevo finito di lavora lei veniva a prendermi, ripercorrevamo via XX Settembre e, nel bar, prendevamo una bottiglia di cognac. Poi andavamo alla pensione Groppallo, in via Lungoparco Groppallo, e passavamo la notte in allegria. Sarei potuto diventare un pappone, perché ero senza lira e lei mi offriva dei soldi: ma mi bastava lei, e il suo cognac. Mi raccontava storie orripilanti. Come di quel cliente che le pagava cinque volte la marchetta, per poter andare con lei quando aveva le mestruazioni, in modo da potersene impiastricciare i baffi.

Poi abitai per qualche tempo in un monolocale con soppalco in salita Sant'Agostino, che dividevo con Riccardo Mannerini. C'era ma stufa a kerosene che appestava l'aria. Lui era pazzo per le donne, ha scritto la maggior parte delle sue poesie per una certa Franca, finché non l'ha avuta e allora ha smesso di scrivere. In quell’appartamento portavamo le nostre conquiste: le sue erano per lo più orrende, perché lui era cieco, brutto e povero, era solo intelligente e poeta, e quelle belle lo snobbavano. Mentre quelle che stavo io, di lui, non volevano saperne. Sicché un giorno ci siamo messi d'accordo: ognuno si scopasse le sue.

Spesso con lui o con Villaggio, andavo al Rqgno Verde, un locale di via Gramsci. Capitava che qualcuno mi guardasse, magari perchè cominciavo a essere abbastanza noto. Ma siccome avevo una palpebra troppo bassa, che mi cadeva sull'occhio sinistro come una tendina, pensavo che fosse per quello. Così finiva regolarmente a cazzotti, e qualche volta spuntavano anche dei coltelli. Anche per questo avevo cominciato a studiare lotta giapponese, con un certo maestro Bianchi, in via Famagosta. Ma dopo sei mesi ho lasciato perdere, mi ero rotto le scatole a far ginnastica. Ancora una volta era prevalsa la pigrizia, la mia mancanza di ordine e l'odio per qualsiasi forma di routine.

Passavo spesso anche da via del Campo, la strada dei travestiti. Una volta salii in camera con un certo Giuseppe, che si faceva chiamare Joséphine e mi apparve come una bellissima ragazza bionda. Ma, una volta venuti al dunque, scoprii facilmente che era un uomo, e che non era ancora andato a Casablanca. Senonché era talmente bella, e aveva un seno così strepitoso che restai ugualmente. Ci fu un rapporto, per così dire, orale. Anzi, ce ne furono più d'uno. Ridiscesi e sotto, ad aspettarmi, c'erano Villaggio e Giorgio Leone, un altro amico. Feci loro un racconto dettagliato dell'incontro, come era nelle nostre abitudini, dissi che la mia 'compagna' occasionale aveva una ventina d'anni e assomigliava a Franca Rame, e solo alla fine precisai: 'C'è solo un problema, ha l'uccello'.

Loro cominciarono a sghignazzare e a prendermi in giro. Ma poi tornarono in via del Campo, per più d'un mese, a cercare il mio amico Giuseppe."

 

* In genovese, organo femminile. Sta anche per balle, frollole.

**genovese, finocchio, omosessuale