HOTEL SUPRAMONTE

 

...e or siedi sul letto del bosco che ormai ha a tuo nome

ora il tempo è un signore distratto è un bambino che dorme

ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano

cosa importa se sono caduto se sono lontano

perché domani sarà un giorno lungo e senza parole

perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole

ma dove, dov 'è il tuo cuore, ma dove è finito il tuo cuore...

"Hotel Supramonte", da L'indiano

 

L’estate scolorò nell'autunno, l'autunno illividì nell'inverno. La canicola diradò in tepore, e il tepore si arrese al gelo. Il tempo avanzava a lenti passi prudenti, così come la speranza che non è mai infinita e perciò andava rosicchiata a piccolissimi morsi, in grande economia com'è buona norma nei molti Hotel Supramonte ancora nascosti tra il verde e la roccia, come nelle prigioni del Potere o in quelle senza inferriate che la vita erige attorno ai sogni e alla libertà di sognare.

Il più duro era stato valicare l'angoscia degli inizi, quel muro d'acqua oscura e rovente che teneva prigionieri gli occhi della ragione perché non scrutassero il futuro. Prima che il verde arrogante delle foglie cominciasse a umiliarsi sotto tinte giallastre, per poi sprofondare nel niente in atterraggi languidi, come Mimì e Violette uccise da tisi invernale sopra anonimi letti di muschio.

I volti non più costretti nei cappucci, rimasti soli, di notte, in silenzio, facevano l'amore, su quei letti di frasche che andavano scompaginandosi a ogni respiro, per amore, ma anche per spremere via i veleni densi delle paure. Finché la sporcizia e il suo odore non li obbligarono a desistere.

 

Da poco lontano, da un oltremondo prossimo e irreale, giungevano a brandelli e barlumi i suoni della vita, come amplificati e resi epici dalla loro stessa irraggiungibilità. Campanacci di pecore al pascolo, richiami di pastori. Urla e spari di cacce al cinghiale, i lagni di un animale ferito e abbandonato per tre giorni alla sua agonia, una voce che chiamava un cane, Gemma, su frequenze crescenti di ansia. Pochi flash di puro suono, senza forma né ombra, ma sufficienti a farli sentire ancora, di tanto in tanto, parte di un mondo.

 

All'Hotel Supramonte le giornate erano scandite da rituali e da orari rigidi, come in un ospedale. Si svegliavano che era ancora buio, e ai primi lucori aurorali i custodi offrivano loro un sorso di grappa, per scaldarsi.

Bisognava aspettare le dieci, per il pranzo: scatolette, formaggio, pancetta, qualche volta vino. Qualche volta un pasto caldo, cotto su un fornelletto alimentato da una bombola a gas. E ogni giorno, due pacchetti di sigarette per Fabrizio.

Dopo il pranzo, una partita a carte. Alle diciotto, gli ostaggi avevano licenza di fare, come si usa dire, i propri bisogni. Poi la cena, e a dormire.

Per lavarsi, ai due prigionieri veniva fornita dell'acqua contenuta in taniche di plastica: ma l'arrivo dell'inverno rese quell'operazione troppo penosa, a causa del freddo. A Dori, quando sopraggiungevano certi disturbi femminIli, furono forniti assorbenti e cotone. Nessuna notizia su quanto accadeva nel mondo: tranne quattro volte, quando ai due fu portata una copia di un giornale, perché la firmassero e le loro famiglie ne ottenessero la prova che entrambi erano vivi.

Impararono a scoprire l'enormità di piccole cose abituali, che la prigionia aveva tramutato in miraggi: un bagno, uno shampoo, una telefonata, un caffè preparato sul fornello di casa. "È stato un trauma, ma ho cercato di recuperarne soprattutto gli aspetti positivi", disse più avanti Fabrizio, ai cronisti che lo intervistavano dopo la liberazione.

Nel resto del mondo, le ricerche si intrecciavano alle trattative. Le giacche azzurre perlustrarono le riserve sarde (si fecero anche riprendere dalla televisione di Stato mentre fingevano di cercare i due rapiti indovinate dove, in un boschetto vicino alla loro casa) a caccia di indizi e di orme, le passarono al napalm della loro curiosità e non trovarono nulla. L'indomani del sequestro, quando fu dato l'allarme, il professore volò in Gallura e mobilitò i suoi intermediari. Arrivò il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, allora capo dell'antiterrorismo, caso mai dietro il rapimento si profilasse una pista politica. Non la fiutò, perché non c'era, e ripartì.

Da Genova, rimbalzò la voce che due cadaveri, appartenenti a un uomo e a una donna, fossero stati individuati e ripescati nelle acque del porto: era solo un falso allarme, l'apprensione si gonfiò e si sgonfiò come a ogni segnalazione o telefonata di mitomani, che in questi casi non mancano mai di farsi vivi.

Il professor Giuseppe De André e suo figlio Mauro fecero sapere che il riscatto sarebbe stato pagato anche per la libertà di Dori, la richiesta dei rapitori fu di un miliardo, De André disse: "Non ce l'ho". Proseguirono le trattative, vi parteciparono Giulio Carta, un futuro amico dei sequestrati, e don Salvatore Vico, il prete di Tempio Pausania che aveva battezzato la piccola Luvi. La famiglia propose mezzo miliardo, ci si accordò su seicento milioni.

Più e più volte, gli emissari percorsero con le loro auto strade sassose e greti di torrenti, sfasciando balestre e ruote. Finché il prezzo fu pagato, e nel suo covo d'ombra il sinedrio segreto, gli insospettabili nelle cui mani era stretto il potere di vita e di morte, decretò la libertà dei due ostaggi. Prima fu liberata Dori, perché andasse dalla famiglia e attestasse: "Pagate pure, Fabrizio è vivo e sta bene". Poi, l'antivigilia di Natale, anche a lui furono tolte le catene e offerto l'ultimo sorso di grappa. I custodi lo accompagnarono sulla strada, lungo il viottolo sommerso dalla boscaglia, gli chiesero di perdonarli, sfilarono il suo cappuccio e scomparvero, era notte.

L'ASSESSORE E I GIORNALISTI BENE

A piedi, lottando per restituire alle gambe disavvezze l'abitudine a camminare, raggiunse la macchina di Giulio Carta, che lo avrebbe riportato alla vecchia vita. Il primo bagno, la prima cena, la prima telefonata a casa mentre i giornali di tutta Italia riaprivano le loro prime pagine per annunciare che Fabrizio De André e Dori Ghezzi erano stati liberati, "la coppia si trova ora in casa di amici e sembra in buone condizioni fisiche e psicologiche".

Dori si tagliò i capelli che da quattro mesi aspettavano uno shampoo, Fabrizio tolse la camicia a quadri che lo opprimeva da centodiciotto giorni e si rase, perché alla piccola Luvi, tra l'altro, la barba incuteva timore - forse ripensò quante volte, in passato, mamma Luisa lo aveva invitato a farsi accorciare i capelli, con scarso successo. Poi il primo amore fatto in un letto vero, il primo sonno protetto da pareti e finestre chiuse, l'interrogatorio dei carabinieri e del giudice, e via a Genova, per il Natale in famiglia nella grande villa di via Francesco Pozzo.

E là, il primo incontro con la stampa. Ai giornalisti, i rapiti parvero rilassati e sereni. Parlarono della loro odissea con toni pacati, Dori disse che "in tutti quei mesi, nonostante il freddo e la vita all'addiaccio, non ho mai tirato un colpo di tosse, tutt'al più qualche sternuto, mentre Fabrizio sì, ma la sua è una tosse cronica, da fumatore". E aggiunse che quell'esperienza l'aveva resa "più sospettosa, ma anche più espansiva". Lui, flemmatico, si attribuì una capacità di "rimuovere, di ogni esperienza, i lati più sgradevoli", e annunciò un prossimo disco perché "parlare con i nostri custodi mi ha offerto molti spunti, e d'altronde quando liberano un industriale sequestrato, lui ritorna alla sua scrivania, quando liberano un cantante, perché non dovrebbe tornare alla sua chitarra? Noi non siamo due sequestrati che decidono di fare gli artisti, siamo due artisti che sono stati sequestrati".

E la Sardegna? Certo che vi sarebbero tornati, "perché a parte questa vicenda là abbiamo tanti bei ricordi, tanti amici e un'azienda da mandare avanti. E d'altronde non è solo alla Sardegna in generale, che sono legato, ma alla mia fattoria, fosse anche in Papuasia".

In Sardegna il capitano dei carabinieri, Vincenzo Rosati, e il giudice Lombardini avviarono le indagini per individuare i mandanti e gli esecutori del sequestro. Banconote del riscatto pagato dal professor De André, durante l'indagine svolta anche dalla Finanza col capitano Franco Riviezzo, furono trovate a Tempio, in altre località dell'isola e perfino in Toscana. Il questore di Sassari, Montesano, promise ai due artisti di farli proteggere - anche se Fabrizio disse a un giornale: "Ormai non possono più rapirci, l’hanno già fatto, è come se fossimo vaccinati contro i sequestri. E poi, sarebbe inutile, non abbiamo più soldi" - ma dovette trattarsi di una protezione assai discreta, visto che di essa i due non si accorsero mai.

Ci fu un primo arresto, quello di Peppino Pala, un pregiudicato sorpreso in un bar mentre si accendeva la sigaretta con una banconota del riscatto.

Si accertò poi che il dottor Marco Cesari, un veterinario toscano, riciclava parte del denaro versato ai sequestratori della famiglia De André: abitava a Radicofani, vicino a Siena, il paese che aveva ospitato le gesta del brigante Ghino di Tacco, ed era considerato un tipo intelligente, ma un po' strambo. Fu arrestato nel marzo dell'80, e dal carcere scrisse lettere ad Amnesty International, a Pertini e forse - si sussurrò - a chi conduceva l'inchiesta. Sta di fatto che spifferò tutto e fu così che, ai primi dell'ottobre '81, fu scarcerato. In galera subentrò, con altre dieci persone, Salvatore Marras, soprannominato Mammuthone, assessore ai Lavori Pubblici nel Comune di Orune, in Barbagia, e notabile locale del Partito comunista italiano.

Si disse che Marras fosse stato l'ideatore e l'organizzatore del rapimento, complici un parente e un gruppo di sardi trapiantato a Siena. Per ironia della sorte i suoi quattro figli, ignorando di parlare di corda in casa dell'impiccato, avevano allestito, con una cooperativa teatrale, La terra degli altri, un dramma il cui protagonista era un barbaricino che, immigrato in Toscana, vi organizza sequestri e mette nei guai anche i suoi familiari innocenti. Deus ex machina della compagnia, e regista dello spettacolo, era Pina Campana, cognata di Marras e segretaria della sezione Pci di Orune.

Di lei i giornalisti parlarono non perché risultasse coinvolta nel rapimento, ma perché l'assessore, per certe sovvenzioni fatte elargire alla sua cooperativa, era stato criticato da tre compagni di partito, che avrebbero pure denunciato lo "stile stalinista" della donna. Marras - così riportarono i giornali - aveva risposto sottoponendoli a una sorta di "processo" sommario e facendoli espellere dal partito per "frazionismo". Ne fu espulso a sua volta, quando si scoprirono le sue responsabilità nel rapimento De André.

Fu scritto che tre sopralluoghi erano stati organizzati per ritrovare la "prigione" che aveva ospitato Dori e Fabrizio, e che essi non la riconobbero in nessuno dei tre luoghi indicati. In realtà il sopralluogo fu uno solo, e fruttuoso, visto che i due artisti vi riconobbero immediatamente il teatro del loro dramma. E quando fu loro chiesto se, tra i carcerieri, ve ne fosse uno con gli occhi azzurri - che era appunto il colore degli occhi del veterinario Cesari - risposero decisamente di no. Serpeggiò così l'ipotesi che gli ex sequestrati volessero "coprire", chissà perché, i colpevoli. E quando Fabrizio dichiarò di voler perdonare ai due carcerieri - non, ovviamente, a chi li aveva ingaggiati - costretti a quel ruolo dalle vicende di emarginazione e di miseria che da secoli gravano sulla loro gente, giornalisti molto "per bene" dedicarono al cantautore "comunista" commenti trasudanti indignazione, accusandolo di lesa borghesia, di frequenti partecipazioni a feste dell'Unità, di demagogia furbastra.

Si distinsero nella bisogna firme come Sergio Ricossa e Domenico Bartoli, molto amate dai conservatori. Sentite che cosa riuscì a scrivere Bartoli, a riprova di come anche un giornalista di prestigio possa lasciarsi accecare dallo spirito di fazione: "Fabrizio

André riassume in se stesso tre personaggi diversi, e le pose e snobismi che da questa triplice origine derivano. Borghese, di famiglia ricca, di ascendenza piemontese e addirittura savoiarda, diventato uomo di sinistra estrema. Nello stesso tempo, le sue canzoni, i suoi concerti ho hanno reso popolarissimo. Allo snobismo del ragazzo viziato in famiglia con abitudini che, per quanto si faccia, non si perdono più, si è dunque sommato quello, duplice, del cantautore di successo con pretese rivoluzionarie".

Bartoli poi, non pago, dà conto di come il riscatto fosse stato pagato da papà De André, e non si sorprende, dice, che i "miliardi", dice davvero così, "i miliardi del cantautore (concerti, dischi) fossero stati dissipati - dice proprio così: dissipati - nella tenuta sarda e in altre spese", e accusa Fabrizio di essersi dimostrato, in "Hotel Supramonte" (ma dove?) e al processo "vittima della sindrome di Stoccolma", tanto da essere arrivato, "da intellettuale di sinistra qual è, a conclusioni che altri rapiti non saprebbero nemmeno immaginare".

Insomma, per la penna allenata di Bartoli, "il caso di De André, psicologicamente, è assai superficiale. Ma vi si innesta un meccanismo che è messo in moto dalle attitudini canore e spettacolari del giovane e dalle sue inclinazioni a sinistra. Sullo sfondo, resta il ragazzo che porta in sé i capricci della borghesia ricca e che, insieme, vorrebbe cancellare questo peccato sociale di origine". Poi il giornalista ricordava irritato il perdono elargito non ai mandanti ma agli esecutori materiali del sequestro, per ammonire: "Siamo, come si vede, nei limiti, per così dire, di Stoccolma. Ma Fabrizio, dopo il sequestro e l'esperienza montanara col cappuccio in testa, ha visto aprirsi davanti a sé grandi prospettive politiche fino allora inesplorate. Ha aderito all'indipendentismo sardo". Un vero crimine, questo, secondo l’inflessibile censore che non perdonava neppure, a Fabrizio, un certo suo interesse per la cultura sarda, e il suo linguaggio.

La replica di De André fu assai meno verbosa, e assai meno violenta. E immensamente più umana. In un'intervista uscita sullo stesso giornale che aveva ospitato la stravagante invettiva citata, rispose, pacato e lapidario, a un redattore che gli ricordava come "qualcuno" si fosse scandalizzato che lui non avesse mai avuto, nei confronti dei rapitori, parole di rancore, e anzi li avesse perdonati:

"Non ho mai conosciuto i mandanti del sequestro, non sapevo che fossero gente benestante, altolocata. Io ho avuto a che fare con i guardiani: due pastori, due strumenti. Ho perdonato loro perché, potendo farci del male, hanno scelto di trattarci bene. Hanno fatto di tutto perché Dori e io soffrissimo il meno possibile".

E poi, l’affondo:

"Vorrei che certi Catoni, certa gente che mi dice: dovevi prima impiccare e poi perdonare, vivessero l'esperienza che abbiamo vissuto noi, e provassero quanto è importante, in quelle condizioni, essere trattati con umanità".

Aggiunse, poi, che il sequestro gli aveva insegnato:

"A contentarmi, a capire che certe cose che ritenevo ovvie, dovute, indispensabili sono assolutamente superflue. E a scoprire quanto la libertà sia relativa: ci siamo sentiti più liberi il primo giorno, quando i due guardiani hanno acconsentito, pur lasciandoci incatenati, a toglierci le bende dagli occhi, che non alla fine, quando ci hanno rimandati a casa".

Nell'83, al processo, il tribunale di Tempio era gremito di scolaresche che, per vedere da vicino i due cantanti, avevano bigiato le lezioni, in gran parte col consenso dei presidi. Furono ascoltati i rapiti e il professor Giuseppe, si compilò una sorta di bilancio del sequestro, completo dei dieci milioni offerti alla parrocchia di don Vico e del milione a testa elargito, come segno di riconoscenza, agli altri intermediari. Carta fu accusato di aver maggiorato la richiesta del riscatto di cinquanta milioni, per intascarseli, e si offrì di versarne sessanta ai rapiti, sotto forma cautelativa, finché luce non fosse fatta. Ma Fabrizio rifiutò.