De André, Gesù e l'anarco-crìstianesimo

Il ritorno alla sua poetica più tradizionale non avviene casualmente o per rispettare un'ipotetica "strategia di immagine" ma, al contrario, proprio perché per De André, indipendentemente dalle forme espressive prescelte - la canzone, e quindi l'arte - ha obiettivi che vanno ben al di là del gioco estetico o della sperimentazione fine a se stessa.

Ho sempre pensato di dover essere socialmente utile per contare qualcosa (soprattutto di fronte a me stesso). Non per demagogia o per poter dire "io sono socialmente utile" ma proprio per soddisfare delle mie esigenze private. In tutti i miei lavori mi sembra che l'impegno sociale ci sia sempre [...] fatto, penso, con estrema coerenza rispetto alle mie capacità espressive e sempre con l'intento di rendermi utile alla collettività.

Da questa dichiarazione emergono due aspetti fondamentali per comprendere la poetica di De André e lo spazio da lui occupato nel dibattito politico e culturale degli ultimi trentacinque/quarant'anni

Da un lato, in quel suo soddisfare esigenze private riecheggia Stirner: "io per me sono tutto, e tutto ciò che faccio lo compio per amor mio"; dall'altro, meno prevedibilmente, fa la sua comparsa una venatura di anarchismo tolstojano che si concretizza in quel rendersi "utile alla collettività" e nel quale si ritrova una concezione dell'arte intesa come strumento per "l'avanzamento dell'umanità verso la perfezione".

C'è sempre, in ogni epoca e in ogni società umana, una coscienza religiosa del bene e del male comune a tutti gli uomini di tale società, ed è questa coscienza religiosa a determinare il valore dei sentimenti espressi dall'arte.

Lev Tolstoj, l'anarchico cristiano, avrebbe riconosciuto in De André quella coscienza religiosa capace di vera arte come "i racconti privi d'artifizio della Bibbia, le parabole del Vangelo, i racconti e le leggende popolari, le canzoni popolari accessibili a tutti" ?

Sì. Anche se con Cecco Angiolieri dichiara che "S'i fosse foco, arderei 'l mondo / si fosse vento, lo tempesterei", c’è una profonda religiosità laica in De André, che, come nel cristianesimo delle origini, fa - pasolinianamente - dell'uomo vituperato, vilipeso, violentato dal potere e dai potenti, l'oggetto di un amore infinito.

Non ci sono chiese o preti per questo culto dell'uomo; o meglio, ogni spazio, sia esso un bordello, un campo rom, la cella di una prigione, possono diventare i luoghi dove celebrare l'umanità dei perdenti; ogni prostituta, ogni furfante, ogni suicida può diventarne l'officiante.

Forse, primi tra tutti, proprio i suicidi, colti in quell'attimo in cui la scelta estrema e perdente del loro gesto ribelle, coincide paradossalmente con la più alta affermazione di sé ("fate che a voi ritorni / fra i morti per oltraggio / che al cielo ed alla terra / mostrarono il coraggio").

Non è casuale che De André, in questo suo celebrare gli umili e gli sconfitti, incontri proprio la figura di Cristo, un incontro certamente non secondario, nel tracciare le coordinate dell'intera sua produzione poetico-musicale.

Senza possibilità di equivoci i termini di questo confronto:

"Non intendo cantare la gloria / né invocare la grazia o il perdono / di chi penso non fu altri che un uomo / come Dio passato alla storia / ma inumano è pur sempre l'amore / di chi rantola senza rancore /perdonando con l'ultima voce / chi lo uccide fra le braccia d'una croce", e infatti, se con il Gesù cristiano De André "parla alla pari", da uomo a uomo, lo stesso non si può dire che faccia con il Dio che quell'uomo dovrebbe rappresentare sulla terra: quando lo fa, il più delle volte il suo tono resta comunque tra il canzonatorio e il sarcastico.

Al tono confidenziale di Preghiera in gennaio (1967), dove De André arriva a suggerire a Dio ciò che deve fare ("ascolta la sua voce.. vedrai sarai contento">, fa da parziale contraltare il Dio di Spiritual che dovrebbe scendere dalle stelle per cercare e salvare l'uomo sulla terra e che invece, quando proprio sarebbe necessario per impedire la catastrofe di una guerra "è già scappato, dove non si sa / buon Dio se n'è andato, chissà quando ritornerà"

La distinzione tra Gesù uomo e Gesù figlio di Dio è ovvia quanto marcata.

De André si riconosce nei valori rivoluzionari del cristianesimo delle origini, cioè nei valori sociali del messaggio cristiano e sicuramente molto meno in quelli religiosi ("Dio imbrogliò il primo uomo / lo costrinse a viaggiare una vita da scemo / nel giardino incantato lo costrinse a sognare / a ignorare che al mondo c'è il bene e c'è il male") anche se, in certi momenti, si potrebbe dire suo malgrado: infatti, prendendo a prestito le parole di Francis Bacon, di De André si potrebbe dire che "l'ateismo è più sulle labbra che nel cuore dell'uomo", tanto che la conclusione di Spiritual è "Dio del cielo io ti aspetterò / nel cielo e sulla terra io ti cercherò".

Paradossalmente, proprio il messaggio cristiano sembra sottendere l'indignazione anarchica che anima molta della produzione di De André.

A partire dal sentimento della pietà per tutti gli umili, i vinti, gli esclusi ("Non cercare la felicità / in tutti quelli a cui tu hai donato / per avere un compenso / ma solo in te / nel tuo cuore / se tu avrai donato / solo per pietà">.

È la pietà che salva gli assassini di Delitto di paese (1965), perché "fu qualche lacrima sul viso / a dargli il paradiso". Non è secondario ricordare che De André inizia a "prendere a prestito" le parole di Brassens già nel 1965 proprio per iniziare il suo lungo excursus tra l'umanità derelitta cui solo la pietà può restituire il senso ultimo della dignità.

E quindi pietà, quella "pietà ineffabile che si nasconde nel cuore dell'amore", al fondo della morale di De Andrè.

Pietà per il Cristo che "sulla croce sbiancò come un giglio", "per chi non ha sorriso" , per i drogati ("Uomini senza fallo [...] che la pietà non vi sia di vergogna"); per prostitute, "Banchieri, pizzicagnoli, notai /[...] navigammo su fragili vascelli / per affrontar del mondo la burrasca / ed avevamo gli occhi troppo belli / che la pietà non vi rimanga in tasca".

Ma pietà, pur se sottintesa, anche per il matto che ha "un mondo nel cuore", ma che non riesce "ad esprimerlo con le parole"; per Nancy che amò tutti e nessuno amò lei e che alla fine "cercò dal terzo piano / la sua serenità"; per i bambini che "dormono nel letto del Sand Creek"; per il bandito sardo "senza luna senza stelle e senza fortuna"; per le "spose bambine" dei rom che vanno a "caritare"; e, infine, per chiunque "viaggia in direzione ostinata e contraria / col suo marchio speciale di speciale disperazione / e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi / per consegnare alla morte / una goccia di splendore".

Per loro, che incarnano tutta l'umanità da lui sempre cantata, De André chiede finalmente: "ricorda Signore questi servi disobbedienti / alle leggi del branco / non dimenticare il loro volto / che dopo tanto sbandare / è appena giusto che la fortuna li aiuti"

È dunque, per dirla con Blaise Pascal, "una pietà della tenerezza" quella che va a nutrire la poetica di De André, una poetica che ha quasi sempre avuto nella semplicità espressiva la sua forza, e che rispondeva così, ancora una volta (ma forse inconsapevolmente) alle indicazioni di Tolstoj:

L’artista del futuro capirà che inventare una favola, una canzone commovente, una filastrocca […] e disegnare un'immagine capace di allietare decine di generazioni o milioni di bambini e di adulti è immensamente più importante e fecondo che non scrivere un romanzo o una sinfonia, o dipingere un quadro in grado di distrarre per un po’ di tempo qualche persona delle classi ricche per poi essere dimenticato per sempre.

Non è forse inutile ricordare che proprio Tolstoj, all'arte vera, che è "agente di un corpo sociale profondamente unito e di una fede religiosa viva" contrappone l'arte falsa, "che nasce invece dalla divisione della società in classi opposte e dalla irreligiosità delle classi dominanti"

Ed è proprio l'irreligiosità ciò che De André sottolinea più spesso per evidenziare la grettezza e la volgarità degli intenti della piccola e grande borghesia.

Dalla "gente (che) dà buoni consigli / sentendosi come Gesù nel Tempio / [...] se non può più dare cattivo esempio" al re che con il suo potere costringe il principe a donargli la propria sposa ("se tu vorrai cederla a me / sarà la favorita"); dai medici che, al collega desideroso di essere utile al prossimo, inviano i loro clienti "ammalati di fame, incapaci a pagare" ("e allora capii, fui costretto a capire / che fare il dottore è soltanto un mestiere / che la scienza non puoi regalarla alla gente [...] se non vuoi che il sistema ti pigli per fame"), al "figlio sempre più capace / di giocare in borsa / di stuprare in corsa" che incarna quella tipica volgarità yuppie che anche l'Italia ha conosciuto nei suoi anni ottanta, la scena "benpensante" descritta da De André si anima di un "bestiario umano repellente quanto, comunemente, riverito dall'ignorante ossequiosità della codardia prezzolata.

Contro questo mondo De André eleva la religiosità laica di chi vive e soffre la propria esistenza dovendosi confrontare con l'idiota ottusità dell'ipocrisia che si fa istituzione e dogma.

Questa visione del mondo De André la concretizza versificando e musicando alcuni capitoli dei Vangeli apocrifi in La buona novella (1970), dove, con un procedimento che ricorda il regista Pasolini di Il Vangelo secondo Matteo (1964), le figure della narrazione, perdendo l'aura della mistica tradizionale, riacquistano la loro dimensione umana di precarietà e conflittualità esistenziale.

Il conflitto tra la legge dei potenti e le umane vicende trova in La buona novella una delle più alte espressioni della poetica di De André, il quale affida ai colori, ora tenui ora violenti, delle immagini che va a raffigurare con i suoi versi (così come Pier Paolo Pasolini aveva fatto con il bianco e nero della sua pellicola), i contrasti quasi archetipici tra i pregiudizi dei dogmi, il sofferto sapere esperenziale del popolo e la violenza, sempre uguale a se stessa, del potere che difende sé e i propri privilegi.

Ogni personaggio dei Vangeli, con De André, perde la sacralità fittizia e oleografica delle narrazioni ufficiali per guadagnare, nel bene e nel male, umanità. Maria, violentata nella sua infanzia quando presero i suoi "tre anni / e li portarono al tempio " e poi rifiutata dai sacerdoti per i quali "fu colpa il tuo maggio / la tua verginità / che si tingeva di rosso"; Giuseppe "padre per professione" cui un "destino sgarbato" assegnò "una figlia di più / senza alcuna ragione / una bimba su cui / non avevi intenzione"; il falegname incaricato di costruire le croci ("Questi ceppi che han portato / perché il mio sudore / li trasformi nell'immagine / di tre dolori"); le madri dei due ladroni crocefissi con il Cristo che rimproverano Maria, piangente "solo l'immagine di un'agonia / sai che alla vita, nel terzo giorno / il tuo figlio farà ritorno / lascia a noi piangere, un po' più forte / chi non risorgerà più dalla morte"; il già citato Tito con il suo testamento il quale altro non è che la rilettura umana e realistica delle Tavole della Legge.

E, infine, il grande affresco di Via della croce dove il potere e i suoi servi, che dopo aver atteso trent'anni "col fegato in mano / i rantoli di un ciarlatano", già volgono lo sguardo "a spiar le intenzioni / degli umili e degli straccioni", prima che questi si ribellino allo scempio di un uomo crocefisso perché nemico del potere costituito.

La scelta di cantare i Vangeli apocrifi è di quelle che meritano più di una considerazione.

Gli apocrifi, anzitutto, in quanto segreti (prima ancora che falsi così come li aveva voluti la terminologia comune: influenzata nei secoli dalla Chiesa che, in questo modo, celava appunto il desiderio di mantenerli nascosti), danno la possibilità a Fabrizio De André di operare, una volta di più, quello svelamento della commedia umana, mistificata dalla cultura dei pochi sull'ignoranza dei molti, e quindi di mettere in luce vizi e virtù di oppressi e oppressori.

Ma i Vangeli mettono in evidenza anche dell'altro.

Quando De André pubblica La buona novella è il 1970, l'anno immediatamente successivo alla strage di piazza Fontana, l'anno delle grandi manifestazioni studentesche e antifasciste, l'anno della rivolta di Reggio Calabria.

Il 1970 è anche l'anno di Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni e di Indagine su un cittadino al disopra di ogni sospetto di Elio Petri; l'anno di La comune di Dario Fo e di La ballata per Pinelli.

Chi ricorda quegli anni ha ben preciso in mente il fatto che:

presi nel loro insieme, i gruppi rivoluzionari italiani costituivano la più numerosa forza di Nuova Sinistra a livello europeo [...] mobilitarono decine di migliaia di militanti in un attivismo frenetico e martellante, con l'obiettivo di creare una vasta coscienza anticapitalista e rivoluzionaria tra la classe operaia italiana.

Non a caso, nel '70, da mesi ormai venivano pubblicati e distribuiti più o meno regolarmente Lotta continua, Potere operaio, d Manifesto.

Cosa c'entrava La buona novella in quel clima? Apparentemente nulla.

Inadatta a creare facili emozioni e gratificazioni pseudo rivoluzionarie per il pubblico militante; impegnativa e troppo riflessiva per tutti gli altri che si accontentavano delle "canzonette usa e getta, La buona novella sembra essere quanto di più distante dal comune sentire di quegli anni.

Il fatto che il disco raggiunga il vertice delle classifiche di vendita e rimanga nei decenni a venire una delle opere maggiormente ricordate dal pubblico di Fabrizio De André, smentisce le apparenze e impone quindi una riflessione attenta riguardo al rapporto dialettico che negli anni si è stabilito tra l'autore e i fruitori della sua produzione.