Genova

…e u so ben t'amii u ma

‘n po' ciu au largu du dulù

e sun chi affacciòu

a 'stu bàule da maina

e sun chi a mia

trèi camise de vellùu

duì cuverte u mandurlin

e’n caimà de legnu duu

e’te na beretta neigra

e teu fotu da fantinn-a

pe’ puèi baxa ancùn Zena

‘nscia teu bucca in naftalinn-a... *

Da - a mae riva, da Creaza de ma

E ripensò la sua terra madre di marinai e poeti refrattari, stretta tra i monti e il mare come una biscia. Ne riprovò la fragranza salmastra e il verde cocciuto, l'avvenenza salda. E si chiese che cosa ciò avesse significato per lui.

Perché per noi liguri in esilio, Genova è - superfluo dirlo – il mare e il suo odore che arriva fino ai monti, quando la tramontana ripulisce l’aria. O il lépego che ti si attacca addosso come una camicia umida, quando l'aria si incolla allo scirocco. Genova è il suo dialetto arabo, la grazia agra delle bagasce che adornano i vicoli. È le sue canzoni - di emigranti che rimpiangono e se possono ritornano, lungo le strade profonde che il vento scava tra le onde e che le onde cancellano subito. Genova è anche la voglia di esserci e quella di scapparne, è una madre che ti porge la sua tetta asciutta e poi ti frusta o ti ferisce con carezze ruvide, è un'amante che ti sconvolge i sensi e poi non si dà. Noi tutti l'amiamo controvoglia e controvento, con un amore da inabili e una fregola non condivisa, che ti costringe a tradirla per sopravvivere e poter tornare da lei.

Che altro? Genova è il tuo primo oceano e il tuo primo asfalto, la prima scopata e la prima voglia di saltare oltre l'orizzonte. Ed è di più, una serie smisurata di prime volte: il primo whisky, la prima amante, la prima moglie, il primo figlio. È i primi amici morti - Luigi, Mauro, il professor Giuseppe, Mannerini il poeta cieco che si uccise e che aveva scritto con Fabrizio "Il cantico dei drogati", insieme come due piccoli Villon, "quando scadrà l'affitto / di questo corpo idiota / allora avrò il mio premio / come una buona nota / mi citeran di monito / a chi crede sia bello / giocherellare a palla / con il proprio cervello / cercando di lanciarlo / oltre il confine stabilito / che qualcuno ha tracciato / ai bordi dell'infinito".

Ma Genova è anche gli amici vivi che da lontano ti vedono crescere e invecchiare, per esempio i pescuèi che, proprio come ne "Il pescatore", hanno la faccia solcata da rughe che sembrano sorrisi e, qualsiasi cosa tu gli confidi, l'hanno già saputa dal mare. E, dopo tante notti scandite insieme a pescare i luassi, ti chiamano tuttora "u D'André", il De André.

La famiglia De André, a Genova, fece ritorno nel '45, la guerra era finita, per le vie sfilavano bandiere rosse e tricolori, discorsi, gente lacera e scarmigliata, felice, confusa.

Fabrizio aveva cinque anni, il professore non aveva più motivo di fuggire e per la prima volta lo videro in giacca e cravatta, i capelli lisci pettinati all'indietro. Li portò nella casa di via Trieste, niente mucche né galline, come si sarebbe potuto viverci.

All'Agnata, ottobre '90.

"Genova. Che cosa significa, per me? Ho avuto la fortuna di nascere in questa etnia, in questo piccolo mondo dove si parla una lingua diversa, che faceva parte di uno stato molto più grande ma con un idioma, una cucina, una cultura autonomi. Questo ti fa sentire così vicino a queste persone che condividono la tua diversità, ti senti a tua volta differente dal resto del mondo, sei membro di una grande famiglia di settecentomila persone che ha usi e costumi tutti suoi. E se arrivi a Milano, ci arrivi come un immigrato dal Sud.

Penso che la gente che viene da questa matrice non possa che esserti affine perché ha la tua stessa cultura e le tue stesse radici. E soprattutto i tuoi stessi punti fermi: 'sicché, se un genovese a Milano vede il Duomo, non può fare a meno di paragonarlo alla cattedrale di San Lorenzo. Ci si trova a solidarizzare come se si appartenesse a una tribù, la medesima. Questo è singolare perché Genova, a differenza della Sardegna che è un piccolo continente a sé stante, è una città continentale, nel senso che fa parte del continente eppure sta al suo interno come un'isola: appartata, racchiusa in se.

Da dove viene la nostalgia che tuffi noi abbiamo di Genova? Tu dici, e hai ragione, che la nostra tradizione musicale è piena di emigranti che rimpiangono la loro città e sognano di tornarvi, il che si ritrova anche nella canzone napoletana e in quelle di altre città di mare, mentre non succede a Milano o a Torino. Ma forse questo dipende dal fatto che i milanesi sono nati ricchi, e i loro affari li hanno sulla terraferma, mentre i genovesi sono nati poveri, e i loro commerci hanno dovuto farli via mare, lontano da casa.

Forse in molte delle nostre canzoni c'è anche questa paura di navigare, perché andare per mare è spesso un'avventura pericolosa, ed è un isolamento nell'isolamento: sei isolato dal resto del mondo perché insieme a te c'è soltanto gente della tua stessa tribù, e sei isolato con loro in mezzo al mare. E anche per questi motivi che la tua nostalgia di casa è così forte.

E poi ti attacchi anche a fatti fisici, sapori, odori. Magari i cattivi odori che trovi solo nei porti, e che ti seguono dall'infanzia: il refrescume, il puzzo delle fogne scoperte che finiscono in mare, quello del pesce marcio.

Ma per quanto mi riguarda, Genova è anche la mia scoperta della musica, il mio primo maestro di violino che dovetti corrompere perché suonasse lui, facendo credere a mia madre che a suonare fossi io, o il colombiano che mi insegnò a suonare la chitarra risparmiandomi solfeggi, scale e tutti i pallosi preliminari, perché sapessi di primo acchito se 'dove finiscono le mie dita / debba in qualche modo cominciare una chitarra'. E Lee Masters che già a scuola preferivo pericolosamente a Carducci; e Brassens e Brel cui devo se ho cominciato a fare questo mestiere che non è un mestiere, no davvero, semmai un modo di prendere, se devi lavorare, la strada che ti sembra più facile - per poi scoprire che gli ostacoli che credevi di avere scavalcato te li ritrovi tutti, due passi più avanti.

E infine, come dicevo, Genova è anche il profumo e il sapore della sua cucina. Come quelli del pesto, che facciamo a Milano o in Gallura, io e Dori, mettendoci dentro tante noci perché non sappia di menta: come capita quando il pesto lo fai lontano da Genova. Perché solo il basilico di Genova 'non ne sa.

E che altro? A me pare che Genova abbia la faccia di tutti i poveri diavoli che ho conosciuto nei suoi caruggi, gli esclusi che avrei ritrovato in Sardegna ma che ho conosciuto per la prima volta nelle riserve della città vecchia, le 'graziose' di via del Campo e i balordi che potrebbero anche dar via la loro madre, per mangiare. I fiori che sbocciano dal letame. I senzadio per i quali chissà che Dio non abbia un piccolo ghetto ben protetto, nel suo paradiso, sempre pronto ad accoglierli."

*...e lo so bene che guardi il mare / un po' più al largo del dolore/ e sono qui affacciato / a questo baule da marinaio / e son qui a guardare / tre camicie di velluto / due coperte il mandolino / e un calamaio di legno duro / e in una berretta nera / la tua foto da ragazza / per poter baciare ancora Genova / sulla tua bocca in naftalina...