UN FUCILE PUNTATO

…ma nudda si po' fa, nadda in Gallura

no la énini a sapi mt 'un 'ora... *

"Monti di Mola", da Le nuvole

 

Cenato che ebbero, quella sera del 27 agosto '79, Fabrizio uscì sulla porta col suo bicchiere di Fildiferro e la MS tra i denti. C'era un diluvio di stelle, in alto oltre la criniera dei monti. In un angolo, a terra, il cane Nodo era una gran palla bianca, raggomitolato e ansimante per il caldo serotino. Fabrizio gli indirizzò un burbero buonanotte: "Ci farai dormire, stavolta? Andate a ruzzare altrove tu e la tua femmina". Alludeva alla cagnetta che, nottetempo, veniva a trovare il grosso pastore maremmano, e presto lo avrebbe reso padre: i due si stuzzicavano con abbai che facevano a brani la calma notturna, e il sonno dei padroni di casa.

Il cagnone abbozzò un bofonchìo di condiscendenza, che non si trasferì negli occhi furbeschi, i quali sembrava dicessero: "La vedremo, padrone". E si sollevò pigramente, andando a spatolare con la lingua dentro la ciotola dell'acqua, tramutandola in un piccolo, emisferico mare in tempesta.

"Ti alzi presto, domani?" chiese Dori mentre terminava di lavare i piatti e Fabrizio rientrava per non perdere il bollettino dei naviganti, unica trasmissione cui non rinunciava in quella casa dove non aveva voluto né televisore né giradischi, solo una radiolina e un mangianastri a pile. "Come al solito", rispose. E salì in camera da letto, al primo piano, sdraiandosi con una rivista in mano.

Finché lo distolse un fruscio. Si volse di lato, e accanto a sé vide un uomo col viso coperto da una maschera, due occhi scuri che lo fissavano dai fori di quel cimiero di tela, e un fucile puntato. Erano le ventidue, portate dai rintocchi di un campanile lontano.

 

L'HANNO RAPITO

Racconta un cronista amico, non del tutto estraneo alla compilazione di questa storia: "Quell'agosto, intendo naturalmente l'agosto del '79, sarei dovuto tornare all'Agnata per portare a Fabrizio una copia del libro che la Lato Side gli aveva dedicato, e che lui non aveva, e del disco in cui Paoli aveva inciso la sua versione di 'Marcia nuziale', da Brassens. Comprai l'uno e l'altro e, quando stavo per prenotare l'aereo per Olbia, mi dissero che sarei dovuto andare a Sanremo, per l'annuale rassegna canora organizzata dal club Tenco. Fu per questo che non mi trovai presente, quella sera del 27 agosto, all'irruzione dei rapitori.

"Il 28 mattina andai a Genova, per una trasmissione radio con Umberto Bindi, e di là, Umberto e io, assolutamente ignari di quel che, la notte prima, era accaduto all'Agnata, partimmo per Sanremo. Come arrivai in albergo, mi dissero di chiamare subito il giornale, che mi aveva cercato più volte. Telefonai, chiesi che cosa volessero e mi passarono il condirettore, in persona. 'Finalmente' disse, 'allora, su De André scrivi cinque cartelle: il personaggio, le canzoni, la sua storia.' Mi si piegarono le gambe: di solito, quel tipo di articolo lo si scrive quando uno muore. 'Ma perché?' balbettai, aggrappandomi al fatto che due giorni prima avevo parlato con Fabrizio per telefono, e l'avevo trovato vivo e vegeto. 'Non hai saputo?' fu la risposta, 'l'hanno rapito, lui e Dori Ghezzi, ieri sera'.

"Mi telefonò un giornale ligure che, conoscendo l'amicizia tra me e Fabrizio, mi chiese qualche valutazione del fatto. Raccontai che tempo addietro, scherzando, Fabrizio mi aveva detto che, visto che lui si era installato in Gallura per allevare e vendere vitelli e prodotti agricoli, vuoi vedere che a qualche concorrente indigeno sarebbe venuto il ghiribizzo di fargliela pagare. Dissi anche che no, non era molto attrezzato contro eventuali aggressioni: casa sua era sempre aperta, aveva un fucile da caccia che non credevo sapesse usare e un grosso cane, Nodo, ma così mite che, quando arrivava uno sconosciuto, gli si presentava scodinzolando, gli porgeva la zampa e poi, gravemente, si allontanava. Il che presumevo avesse fatto con i rapitori, forte della sua certezza canina, che chiunque entrasse in casa dei suoi padroni non poteva che essere loro amico.

"Mi chiesero come pensavo che avessero reagito, Fabrizio e Dori, all'inattesa prigionia. Risposi che immaginavo Fabrizio mentre discuteva pacatamente con i suoi carcerieri, ascoltando e soppesando le loro ragioni e, magari, riconoscendo ad alcune di esse una percentuale di fondatezza".

 

 

DRAMMA IN MASCHERA

Dori stava salendo in camera e sentì Fabrizio parlare. "Come scherzo mi sembra un po' lugubre", stava dicendo. Forse lei pensò che stesse invecchiando precocemente, cominciasse a parlare da solo. Ma la dissuase una voce ignota: "Qui nessuno scherza, per favore si alzi e venga con me", ribatté lo sconosciuto, l'erre arrotata, il timbro come attutito da un bavaglio.

"Mi faccia almeno fumare."

"Magari dopo, questo non è il momento di fumare sigarette."

Dori si affacciò e vide l'intruso, la maschera, lo schioppo e Fabrizio che cercava di mostrarsi calmo - o, almeno, più contrariato che spaventato. E sentì un'altra voce che, dal basso, chiamava lei: "Scenda giù, signora, e stia tranquilla: nessuno vuol farle del male".

Gli sconosciuti erano tre, tutti mascherati. Fecero scendere la coppia in cucina, li legarono entrambi, poi uno sali a rovistare nel guardaroba e ne cavò due giacconi per Fabrizio, un maglione pesante e un cappotto per Dori. Segno che quel viaggio - eravamo in agosto - non si sarebbe concluso troppo presto.

Per essere certi di non avere sbagliato obiettivo, i tre chiesero alle loro vittime le generalità, poi li fecero salire sulla Diane arancione, uno di loro si mise alla guida e l'auto - che più avanti sarebbe stata trovata vicino al porto di Olbia, le chiavi nel cruscotto - percorse un tragitto di un'ora e mezzo, prima di fermarsi vicino a un bosco.

Il viaggio proseguì a piedi, verso l'alto, su un sentiero disagevole e serpentino che s'insinuava ora tra il verde, ora tra radure spoglie.

 

L'Hotel Supramonte era uno spiazzo nascosto da una boscaglia densa, guardato da monti scoscesi, col canto di un ruscello che arrivava da poco lontano. C'era una sorta di testiera di pietra, ai cui piedi erano stati composti quattro giacigli di foglie, e sopra una breve tettoia di plastica, che facesse riparo contro la pioggia.

I due ospiti furono fatti sdraiare sui loro giacigli, quelli al centro, slegati e costretti a indossare due maschere, con un buco per la bocca e nessuno per gli occhi. I guardiani - uno alto, robusto, addetto alla custodia di Fabrizio, l'altro più minuto, assegnato a Dori - li imboccarono senza scappucciarli, con sardine e tonno tagliati a pezzetti minuscoli. Il primo era più colto, parlava un italiano fluido e perfino elegante, il secondo più rozzo, e non sempre il suo curioso idioma si lasciava intendere. Entrambi davano del lei agli ostaggi e, rivolgendosi a Dori, la chiamavano compitamente signora.

 

QUATTRO MESI

"Restammo in loro compagnia per quattro mesi, prima incappucciati che non avevamo neppure voglia di parlare tra di noi - salvo quando accettavano di toglierci le maschere, a volte per pochi minuti, a volte per qualche ora - poi, su nostra proposta, fummo liberati dai cappucci e incatenati. Così ci lasciarono finalmente soli, visto che ormai non potevamo più scappare.

Loro erano compiti e quasi materni, ci imboccavano e ci raccontavano barzellette per sollevarci il morale. Erano trent'anni che qualcuno non si occupava così totalmente di me. Sicché, a poco a poco, si stabilì con loro un rapporto inatteso, primordiale.

Dei nostri angeli custodi, quello assegnato a me era il più istruito- e d'altronde, sarà che hanno tanto tempo per pensare, ho conosciuto in Sardegna pastori senza studi che si esprimono in un italiano corretto - e anche il più politicizzato.

Era di sinistra, ma si sentiva tradito dalla svolta che Berlinguer aveva impresso al Partito comunista. Ammise che non era piacevole, per loro, il ruolo che dovevano esercitare nei nostri confronti, ed espresse una sorta di solidarietà soprattutto nei confronti di Dori, 'che è figlia di operai' e che, oltre a tutto, col sequestro non c'entrava niente: era stata rapita per essere liberata un giorno prima di me e poter testimoniare, al momento del pagamento del riscatto, che io ero vivo.

Il mio guardiano parlava di Graziano Mesina come di un eroe - in Barbagia c'è un antico detto popolare, secondo il quale 'chi non ruba non è un uomo' - e sosteneva che quell'attività era l'unica scelta che la società gli consentiva, per vivere. In effetti, penso che gente come lui, se avesse la possibilità di un lavoro remunerativo, non si dedicherebbe ai sequestri.

La Barbagia, d'altronde, era la loro patria. Là, da duemila anni, una parte dei giovani è educata a pensare che l'unico modo per sopravvivere è togliere qualcosa agli altri, magari la libertà. E che sequestrare animali o persone sia il solo modo per procurarsi pane e dignità. Oggi, ripensando a quel periodo, mi viene da ribadire di essere stato sequestrato non dalla mafia, ma da una banda di cherokee che prima ancora di volere i soldi volevano dimostrare il coraggio di rapire una persona. Più o meno come il ragazzo della tribù dei serpenti che, per far vedere a tutti e a se stesso di essere un uomo, rubava un cavallo nella tribù vicina, rischiando tra l'altro la pelle.

D'altronde, date loro un'autostrada e forse cambieranno, riuscendo a entrare in contatto col resto del mondo. Quando gli emissari di mio padre andavano là per trattare il nostro riscatto, dovevano percorrere in macchina i greti dei torrenti: cambiavano le ruote ogni due giorni.

Quanto a me, a parte i disagi e l'impossibilità di muoverci, non posso dire che mi facessero paura. Sono più portato a scrutare la vita altrui di quanto non faccia con la mia, mi attirano i perdenti, mi sentivo un soggetto osservatore, più che una vittima. Pensavo che i veri sequestrati fossero loro, che vivevano le stesse nostre scomodità per un compenso davvero misero: alla fine, dovettero spartirsi seicento milioni in undici, anzi sicuramente molto di meno, perché il riciclaggio erode il trenta per cento del denaro 'sporco'.

Alle mie canzoni, a parte le più vecchie come 'Il pescatore' o 'Bocca di rosa', preferivano quelle di Guccini. Una volta pregarono Dori, invano, di cantare qualche cosa per loro. Brani che scrissi dopo nacquero dalle loro riflessioni, come 'Quello che non ho', o da storie vere che mi raccontarono, come 'Franziska'.

Quei lunghi dialoghi furono parentesi quasi serene, e comunque istruttive, in una situazione che alla serenità offriva ben pochi pretesti. C'era infatti la nostalgia delle nostre famiglie, di Cristiano, di Luvi che aveva solo un anno e mezzo e che per fortuna, al momento del sequestro, non era con noi: l'avevamo affidata ai nonni materni, che passavano le vacanze a Olbia. E c'era la mancanza di libertà, che colpiva noi come i nostri custodi.

Vissi tuttavia quell'esperienza, almeno all'inizio, con grande curiosità: fu, in parte, come assistere a un film o leggere un romanzo del quale, malauguratamente, ero il protagonista. Mi incuriosiva, a parte la paura di finir male, vedere come sarebbe andato a finire. Certo, poi è subentrata la monotonia, ma almeno nel primo mese le emozioni non sono mancate, e io, se non vivo di emozioni, mi sento inutile. Tuttavia, c'era una remora, ed era la pena per Dori, costretta a stare là tutto quel tempo solo per fare da testimone della mia incolumità.

Tutto sommato, fummo comunque piuttosto forti. Anche quando ci dissero che mio padre, dopo avere promesso un miliardo, non voleva più pagare il riscatto: era una bugia, e lo intuimmo.

Mi sorpresi anche a pensare a cose cui non avrei mai pensato, se non fossimo incappati in quell'avventura. Non che sia diventato credente, ma quando ti trovi impossibilitato a usare la tua volontà, cerchi qualcuno che ti preservi. Se sei di fronte al lampo, o al tuono, o al gelo ti inginocchi. Visto che non hai nessuna possibilità di decidere del tuo destino, cerchi un sostituto alla tua volontà, ti metti nelle mani di qualcuno che, in quel momento, speri che esista. E così ti arrendi alla tentazione della preghiera: non una preghiera tua, ché forse non ne sei capace, ma una di quelle che ti hanno insegnato quando eri bambino, e che magari ti ricordi ancora a memoria.

E così, oggi, bestemmiare mi riesce un po' più difficile, mi sembrerebbe poco corretto."