L’esperienza del dolore e del sacro

nella poesia di Fabrizio De André

"Appesa la cetra, / la nostalgia si nutre / di silenzi. / Potrà mai la parola / cantare / l’aperta ferita / dell’anima? / Dove dolore è l’esilio, / più vicina è la patria: / dell’indicibile / resta solo custode / l’amore taciturno, / icona dell’addio".

B. Forte

 

La poesia di un poeta, espressione più autentica del vissuto di un’anima, è sempre una voce che parla. Ciò che essa dice è un mondo intero. Nella silenziosità, magari di un solo verso o di una sola strofa, si rivela, a chi è in attesa di ascoltare, l’urlo di un’emozione.

L’ascoltatore, attento alla "parola poetata" di un poeta, patisce il dire del poeta, e quindi com-patisce il patire dello stesso. In ogni autentica poesia (che non sia soltanto il frutto di una mera "esercitazione" ritmica e rimica) il poeta poeta la vita, ossia il tempo. È a partire dal fatto della vita, dalla vissutezza o dalla affettività originaria che nasce e si articola l’esperienza del dire poetico.

Una poesia quindi, in quanto manifestazione dello spirito, dice e ri-dice, un’unica, medesima cosa. Quella cosa è il tempo, ossia la consapevolezza dell’Existenz di esser-ci. C’è stupore, meraviglia per il fatto che la vita sia, che vi sia vita, che vi sia "è". Il poeta è colui il quale riesce a riportare nel linguaggio dei segni il "senso" di quell’è. Ciò avviene anche nel caso della pittura, della scultura, della musica: nell’arte in generale, anche se qui l’emozione patita dalla soggettività è "trascritta" nel mondo, e quindi resa mondana, mediante strumenti diversi rispetto alla parola: colori, ombre, suoni…

Un poeta infatti non modella lo spazio in un corpo, egli "gestisce" la parola nella scansione spazio-temporale. Un poeta non dipinge una tela, egli mediante la parola dipinge un’immagine della vita. Un poeta, ancora, non suona dei suoni, bensì, mediante la parola, egli canta la bellezza e la tragicità dell’ex-sistere. Nella "parola poetata" di un poeta si concentrano dunque in armonica unità immagini, vibrazioni, forme, si ritrovano fusi e con-fusi in un "gioco" di parole e di silenzi le tracce di una totalità affettiva.

Proprio in quest’ambito, nell’ambito cioè di una poesia "pura", intesa come esteriorizzazione di un vissuto, si inserisce l’esperienza poetica di Fabrizio De André, cantautore genovese contemporaneo.

De André come poeta del dolore e del sacro. De André come poeta della vita, poeta della poesia, di una poesia mai risolta in una mera descrizione di un accaduto, bensì costantemente attenta all’evoluzione psicologica ed empatica dei singoli personaggi cantati.

Si susseguono, all’interno di quest’iter poetico, storie di uomini e donne emarginati, delusi, sconfitti da una vita "improvvisa" che alla dimensione dei ricordi affianca sempre anche quella dei rimpianti (1). Si susseguono in un "vortice" di rappresentazioni, amori mai realizzati, sguardi accennati, desideri inespressi, lasciati affievolire nel fondo della solitudine e della memoria(2). Si susseguono tra le critiche ai "benpensanti" borghesi, distratti dalle frenesie quotidiane, le vicende di piccoli "eroi" (prostitute, rom) esclusi dai giochi di potere, e dunque relegati ai margini di una società troppo dura e troppo complessa per essere compresa (3).

Il mondo descritto, cantato dal De André è un mondo caratterizzato da fratture profonde, da contrasti irrisolti, da scissioni laceranti. Un mondo propriamente umano, ove nell’assenza di Dio, dominano sentimenti di disperazione e di dispersione esistenziale:

"…chi

e perché mi ha messo al mondo

dove vivo la mia morte

con anticipo tremendo?

Come potrò dire a mia madre che ho paura?". (4)

Da questi brevissimi versi emerge chiaramente la vena nichilistica che attraversa, costituendone il motivo di fondo, l’intera Weltanschauung del poeta De André. La sofferenza interiore, vissuta dal singolo nella propria singolarità, e mai percepita dall’alterità dell’altro soggetto, diviene richiesta d’aiuto nei confronti di un’Alterità indefinita sotto forma di grido latente, sotto forma di pianto:

"Tu che m’ascolti insegnami

un alfabeto che sia

differente da quello

della mia vigliaccheria".(5)

Il tema del dolore costituisce allora uno dei fulcri più significativi attorno a cui si realizza l’intero universo poetico di De André. Il dolore, in quanto emozione, si pone sempre come esperienza soggettiva, privata, incomunicabile all’altro da me, irriducibile alla dimensione del concetto o delle parole, in altre parole alla dimensione della semanticità. Il dolore è sempre il mio dolore, la mia ferita, la ferita che mi porto dentro, ed io sono quel dolore e quella ferita. Nessuno infatti può comprendere sino in fondo, sino a patirlo in prima persona, il dolore causato ad esempio da una perdita improvvisa o da qualsivoglia evento tragico.

Il dolore è in tal senso morte(6), morte nel cuore, ferita sanguinante in grado di arrestare il flusso del respiro e quindi di spegnere anche l’ultimo sussulto di voce in una lacrima senza forma. Ne è testimonianza la poesia Tre madri, opera in cui si incontrano e si scontrano, ai piedi del Golgota, i destini di tre donne che vivono ognuna la propria sofferenza:

"Tito, non sei figlio di Dio,

ma c’è chi muore nel dirti addio,

Dimaco, ignori chi fu tuo padre,

ma più di te muore tua madre.

Con troppe lacrime piangi Maria

solo l’immagine d’una agonia:

sai che alla vita, nel terzo giorno

il figlio tuo farà ritorno:

lascia noi piangere un po’ più forte,

chi non risorgerà più dalla morte".(7)

All’invito rivolto a Maria di contenere la propria disperazione, seguono le parole di umana sofferenza, di una madre afflitta, come ogni madre per la perdita del proprio figlio, indipendentemente da qualsiasi disegno divino:

"Piango di lui ciò che mi è tolto,

le braccia magre, la fronte, il volto,

ogni sua vita che vive ancora,

che vedo spegnersi ora per ora.

Figlio nel sangue, figlio nel cuore,

e chi ti chiama – nostro Signore –

nella fatica del tuo sorriso

cerca un ritaglio di Paradiso.

Per me sei figlio, vita morente,

ti portò cieco questo mio ventre,

come nel grembo, e adesso in croce,

ti chiama amore questa mia voce.

Non fossi stato figlio di Dio,

t’avrei ancora per figlio mio".(8)

Il dolore allora è in sé senza-ragione, l’assurdo, ciò che ci strugge e di-strugge. Assolutamente gratuito esso si dilata sino a lacerare la coscienza nel profondo. Il dolore confonde, chi lo vive vacilla, "muore" appunto. Il vivente che vive il dolore, il vivente che "muore", "muore" nella solitudine della propria esistenza, rinchiusa nella fatticità del proprio esser-ci (9).

Dolore, solitudine, morte: tre poli che si richiamano a vicenda e si rincorrono l’un l’altro, sino a sprofondare in una desolante "malattia mortale"(10).

Eppure, ed è questa la nostra tesi, lì dove è dolore, dolore vero, dolore estremo, ivi è anche il sacro. Il sacro abita nella dimensione del dolore come preghiera silente. Il dolore è una preghiera recitata nel fondo della propria esistenza, come richiesta di salvezza, ricerca di pace, foss’anche la pace ultima conquistata col prezzo del suicidio.

È questa ad esempio la strada seguita da Nancy, una delle tante eroine del De André che "…cercò dal terzo piano / la sua serenità"(11), ed è la stessa strada in fondo che caratterizza Preghiera in Gennaio, indiscusso capolavoro poetico nella pur vasta produzione del Nostro, "vero inno sacro"(12):

"Lascia che sia fiorito

Signore, il suo sentiero

quando a te la sua anima

e al mondo la sua pelle

dovrà riconsegnare,

quando verrà al tuo cielo,

là dove in pieno giorno

risplendono le stelle.

Quando attraverserà

l’ultimo vecchio ponte

ai suicidi dirà

baciandoli alla fronte

venite in Paradiso

là dove vado anch’io

perché non c’è l’inferno

nel mondo del buon Dio.

Fate che giunga a Voi

con le sue ossa stanche

seguito da migliaia

di quelle facce bianche,

fate che a Voi ritorni

fra i morti per oltraggio

che al cielo ed alla terra

mostrarono il coraggio.

Signori benpensanti

spero non vi dispiaccia

se in cielo, in mezzo ai Santi,

Dio, fra le sue braccia

soffocherà il singhiozzo

di quelle labbra smorte

che all’odio e all’ignoranza

preferirono la morte.

Dio di misericordia

il tuo bel Paradiso

lo hai fatto soprattutto

per chi non ha sorriso

per quelli che han vissuto

con la coscienza pura;

l’inferno esiste solo

per chi ne ha paura.

Meglio di Lui nessuno

mai ti potrà indicare

gli errori di noi tutti

che puoi e vuoi salvare.

Ascolta la sua voce

che ormai canta nel vento

Dio di misericordia

vedrai, sarai contento".(13)

Nel succedersi di queste strofe, non vi è, come si vede, alcuna condanna morale nei riguardi del suicida, ma piuttosto un invito alla pietà e al perdono rivolto verso quel Dio indefinito che solo può ascoltare il "singhiozzo" di ogni sofferente. Dio, in quanto testimone della sofferenza umana, non potrà non accogliere "fra le sue braccia" le anime di tutti coloro che, stremati dalla vita e dal tempo, vissero la propria vita come morte (la morte della propria vita), e dunque regalare loro un attimo-eterno di pace e di riposo.

Il sacro allora, da quanto è stato detto, risiede nella poesia di De André proprio nella impossibilità di…, nella tragicità del dolore vissuto dal soggetto vivente. A partire dalla vissutezza del dolore, dalla paticità o affettività dell’esperienza tragica, si dischiude per l’appunto la sacralità del sacro e si realizza l’incontro tra l’umano e il divino.

Nell’estrema condizione di sconfitta, quando mancano le forze per dire le parole, è il dolore stesso a gridare, in un grido struggente le ferite del tempo. Il dolore si converte così in una "Smisurata preghiera":

"…ricorda Signore questi servi disobbedienti

alle leggi del branco

non dimenticare il loro volto

che dopo tanto sbandare

è appena giusto che la fortuna li aiuti".(14)

La dimensione del sacro dunque in De André non rinvia ad alcuna fede rivelata, o ad alcun dogma prestabilito, ma esclusivamente al sentimento di pietà dell’uomo verso l’altro uomo. Una "profonda religiosità laica" (15) investe l’esperienza poetica del Nostro, una religiosità fondata appunto sul rispetto incondizionato del dolore e della sofferenza. Al di là di riti o di vuoti formalismi, l’esperienza "concreta" del dolore, in-segna e con-segna l’uomo a Dio…

Antonio Di Gennaro

  1. Cfr., F. De Andrè, Fila la lana, 1966
  2. Cfr., F. De André, Le passanti, 1974.
  3. Cfr., F. De André, album Anime salve, 1996.
  4. F. De André, Cantico dei drogati, 1968.
  5. Ibid.
  6. "Il dolore è limitazione dell’esserci, è parziale annientamento; dietro ogni dolore c’è la morte". K. Jaspers, Filosofia, trad. it. di U. Galimberti, Milano, 1972-78, vol. II, p. 207.

  7. F. De André, Tre madri, 1970.
  8. Ibid.
  9. Cfr., S. Natoli, L'esperienza del dolore, Milano, 1999, pp. 7-35.

  10. "…la disperazione è chiamata la malattia mortale: quella contraddizione tormentosa, quella malattia nell’io di morire eternamente, di morire eppure di non morire, di morire la morte. Perché morire significa che tutto è passato, ma morire la morte significa vivere, provando vivendo il morire…". S. Kierkegaard, La malattia mortale, trad. it. di M. Corssen, Roma, 1995, p. 23.

  11. F. De André, Nancy, 1975.

  12. Cfr. F. De Giorgi, La storia del branco e la storia contraria, in AA.VV., Fabrizio De André – Accordi eretici, Milano, 1997, p. 75.

  13. F. De André, Preghiera in Gennaio, 1967.

  14. F. De André, Smisurata preghiera, 1996.

  15. Cfr., R. Giuffrida e B. Bigoni, Canzoni corsare, in AA.VV., Fabrizio De André – Accordi eretici, cit. p. 41.