Tienimi aperti gli occhi


L’uomo non voleva dormire. Non gli andava di andarsene nel mese più stupido dell’anno. Il primo, quando ancora niente è cominciato, c’è un freddo cane e si ha la nebbia appoggiata sul cuore. «Tienimi sveglio», diceva alla sua compagna seduta al suo fianco e lei dava fondo ai ricordi e ai progetti pur di tenere il sonno fuori dalla stanza d’ospedale. E quando, perché anche lei fisicamente stanca di così tanto conversare, non trovava più argomenti, si alzava davanti a lui perché i suoi occhi la guardassero e si riempissero di nuovo di bellezza. Avvicinava il suo volto a quello dell’uomo affogando nel pozzo di quello sguardo stanco per accenderne un desiderio di vita che da qualche parte doveva pur resistere ancora a tutto il male che d’improvviso aveva deciso di fargli compagnia. «Sì, ti tengo sveglio, mio meraviglioso amore», sussurrava lei. Sì, ti tengo sveglio, ti tengo sveglio, ti tengo sveglio. Dormirai domani, adesso racconta, adesso ascolta e rispondimi, interrompimi, sorridi, ridi, chiedimi un bacio, arrabbiati che forse prende paura pure lui e se ne va. Il primario ha detto che si tratta di una complicazione altrimenti staresti già meglio. Solo una complicazione, non vale la pena morire per una complicazione. Ho carta e penna, quando vuoi scrivo. Parlami nella lingua che vuoi, bastano due parole, bastano i suoni che ti sono rimasti. Fa restare a galla le tue parole, anche quelle più vacillanti e febbrili, non importa se più spesso vicine a un mormorìo infantile, parlami e mi prenderò cura di tenerle a pelo d’acqua. Resisti a questo oceano di sudore, il dolore non mi mangia. Sono io che mangio queste ore che non portano a nessun nuovo giorno. Saranno poi loro a divorare me. C’è troppo buio fuori. Scende la sera, ci prende la notte, arriva la mattina che si trasforma nel pomeriggio, poi scende la sera, ci prende la notte e così per uno, due, tre, quattro giorni. Signore porta il quinto, il cinquantesimo, cinquecentesimo, amore parlami, non smettere di cercarmi la mano. Tu sei immortale finché vivi, io domani un corpo che si muove, una narice che respira, una gamba che si piega. E lei giù a parlare, a parlare e pensare, parlare e pensare. Lei, fragile, che afferra per le spalle la vita del suo uomo e la obbliga a spendere adesso ogni minuto che ha conservato per sé. E anche lui parla, anche lui pensa. Parla per non addormentarsi, perché la giovinezza dell’aldilà non vale il vecchio sangue che c’è di qua e pensa che non si può aver guadagnato mai abbastanza vita per poter dire Va bene, è finita, non importa se destinato a diventare cenere in terra e anima vagante in una miniera, in una foresta umida, nell’ozono bucato per l’eternità. Porcogiuda hai vinto tu, ma non credevi di fare tutta ’sta fatica, eh? Glielo dice in faccia alla morte, glielo dice. Le dice Non ti costruisco dall’interno, non accetterò mai la tua ineluttabilità. Perché non ti capisco e non mi piacciono le cose che non capisco e non posso governare. L’uomo resisteva e parlava, resisteva e la guardava. Qualcuno fuori da quella stanza sapeva e per pudore taceva, per una speranza che d’accordo era vana, ma pur sempre speranza. E poi il silenzio. Il silenzio vivo. L’infermiere che mette dentro la testa, Serve qualcosa?; il primario che fa il suo giro, lo guarda, gli parla e si convince che niente è perduto; i figli, in cui si rivede in ogni centimetro di pelle e che gli danno un po’ di sollievo dopo tanto sfinimento. La quarta notte, mentre non s’attenuava il calore della camera che ospitava la metà di quel bellissimo uomo che era stato, lui dimenticò il suo sapere schivo, le sue idee che sapevano di civiltà e chiuse il sorriso amaro da marinaio che col magone nel groppo della gola guarda lontano dal mare.

E adesso accecami il cuore.

Corrado Ori Tanzi